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N.60 maggio 2025

progetti

Alla faccia degli universitari

Ritratti, obiettivi e futuro. Nel progetto fotografico del Collettivo 50mm, una generazione che si racconta: «Abbiamo voluto che Cremona si accorgesse di noi. Non siamo studenti di passaggio. Siamo parte di questo luogo. Lo attraversiamo, lo nutriamo, lo ascoltiamo».

Cremona, primavera.
C’è una luce particolare in certe giornate. Una luce che non grida, ma si lascia attraversare. Quella che danza tra i palazzi antichi e i sogni appena accennati. Quella che entra senza bussare e si appoggia ai volti come una carezza. È quella stessa luce che, in un pomeriggio sospeso, ha accompagnato l’ingresso silenzioso e deciso del pubblico a Palazzo Vidoni.

Tutte le sedie occupate, ma l’attenzione non era per le poltrone.
L’attenzione era tutta lì, su un gruppo di ragazzi che parlavano e sui loro occhi che sussurravano.
Volti. Sguardi. Frammenti.
Era la mostra del Collettivo 50mm. E il titolo non lasciava spazio ai fraintendimenti: Alla faccia degli universitari.
Un titolo che è già dichiarazione d’intenti. Un rovesciamento di stereotipi. Una sfida lanciata senza rabbia, ma con l’urgenza silenziosa di chi ha molto da dire e nessuna voglia di gridare.

155 ritratti.
155 giovani.
155 storie appese, sospese, ma vive.
Ogni volto accompagnato da un QR code, una finestra sonora che svela la voce dietro l’immagine.
Come se ogni foto fosse un portale: non per fermarsi a guardare, ma per entrare.
Per ascoltare.
Per capire.

155 ritratti.
155 giovani.
155 storie appese, sospese, ma vive

A pensarci bene, questo è un articolo che non parla di una mostra. Parla di un incontro.
Di una nascita collettiva.
Di un’idea germinata tra i banchi dell’Università di Pavia – Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali – sede di Cremona. Un luogo spesso percepito come periferico e silenzioso, ma che ha fatto del silenzio la sua forza: lo ha coltivato, lo ha scavato, e ci ha piantato dentro semi di creatività.

Tutto è cominciato con un corso: Storia della fotografia. Un corso come tanti, forse. Eppure, qualcosa si è mosso.
Un’idea. Un’intuizione. Un’urgenza.

«Volevamo fare qualcosa che restasse. Qualcosa che parlasse di noi. Ma non solo di noi: di tutti gli universitari che abitano Cremona e spesso passano inosservati. Siamo tanti, ma invisibili».

«Volevamo fare qualcosa che restasse. Qualcosa che parlasse di noi. Ma non solo di noi: di tutti gli universitari che abitano Cremona e spesso passano inosservati. Siamo tanti, ma invisibili»

Lo racconta Iris Zucca, studentessa, ideatrice, parte viva del progetto e voce ferma di chi ha imparato che lo studio è anche e soprattutto creazione.
Non una recita da aula, ma un’esperienza che accade, che si abita.
«Così è nato il collettivo. E da lì la mostra. E da lì tutto il resto».

Il Collettivo 50mm non è un gruppo di fotografi. È una galassia di competenze.
Chi fotografa. Chi intervista. Chi scrive. Chi si occupa della parte social, come Iris stessa.
Chi media, chi collega, chi immagina.
Sono undici nomi e undici voci: Sara Beni, Anna Baronio, Camilla Bassorizzi, Alice Guarneri, Elisabetta Mantovani, Maria Maruffi, Carlotta Malgari, Alessandro Paolicelli, Martina Ponzoni, Emanuele Riccobono, Iris Zucca, con la supervisione di Riccardo Vialli.

Una piccola costellazione che ha acceso una città intera.

Ogni ritratto in mostra non è solo un’immagine. È un atto di fiducia.

«Chiedere a degli sconosciuti di farsi fotografare non è semplice», racconta ancora Iris.
«Non tutti hanno accettato. Viviamo in un tempo in cui la bellezza è una moneta troppo cara. Mettere la propria faccia, così com’è, è un atto coraggioso».

«Non tutti hanno accettato. Viviamo in un tempo in cui la bellezza è una moneta troppo cara. Mettere la propria faccia, così com’è, è un atto coraggioso»

E qui entra in gioco la sensibilità di Camilla Bassorizzi, fotografa del gruppo.
Niente colori. Solo bianco e nero.
Una scelta netta, essenziale, quasi monastica.«Il colore distrae» ha detto Camilla durante la presentazione. «Ti porta altrove. Il bianco e nero invece ti costringe a guardare il soggetto. Non c’è trucco, non c’è maschera. Solo volto».

Ed è vero. C’è qualcosa nei ritratti che spiazza.
Occhi che non chiedono permesso, ma entrano.
Sorrisi trattenuti, incertezze, sfrontatezze, quieti dolori.
Ogni fotografia è doppia: ciò che il soggetto voleva trasmettere e ciò che il fotografo ha colto.
Nel mezzo: la verità.

Ma la fotografia, qui, è solo l’inizio.
Il QR code è il secondo atto.
Le interviste: intime, semplici, profonde. Racconti di studenti, sogni, paure, desideri.
Frasi sussurrate che diventano manifesti.

«Questa è cultura. Questa è università».
Così ha detto la professoressa Elena Mosconi, con emozione sincera, durante la chiusura dell’evento. «Avete imparato. Ma soprattutto: vi siete assunti la responsabilità di quello che avete imparato».

Un seme. Una consegna. Una prova di maturità.

Insomma, una mostra fotografica può essere molte cose: un evento, un esercizio estetico, un progetto culturale. Ma quando i ritratti escono dalle mura, attraversano i portoni di un palazzo nobiliare e si diffondono tra le vetrine, i portici, le piazze, le vie del centro, allora qualcosa cambia.
La mostra si fa presenza. La fotografia diventa abitante.

È questo il respiro che si è sentito a Palazzo Vidoni, ma anche e soprattutto per le strade di Cremona.
Perché Alla faccia degli universitari non si è fermata alle pareti.
Ha camminato.

I 155 ritratti sono stati distribuiti in città come semi di memoria, ciascuno con la sua voce.
Là dove prima c’era solo un passante, ora c’è un incontro. Uno sguardo che ti guarda.

«Abbiamo voluto che Cremona si accorgesse di noi», ha spiegato ancora Iris Zucca.
«Non siamo studenti di passaggio. Siamo parte di questo luogo. Lo attraversiamo, lo nutriamo, lo ascoltiamo».

«Abbiamo voluto che Cremona si accorgesse di noi. Non siamo studenti di passaggio. Siamo parte di questo luogo. Lo attraversiamo, lo nutriamo, lo ascoltiamo»

È stato così che l’arte è diventata spazio di scambio. Ogni ritratto, una possibilità di fermarsi. Ogni sguardo, una piccola resistenza all’anonimato.

E la città ha risposto.
C’erano i volti attenti e sinceri dei cittadini nel video proiettato durante la presentazione.
Commenti. Reazioni. Emozioni che trapelavano tra le rughe, le mani intrecciate, i gesti.
In quel momento ho immaginato che ci sarà chi riconoscerà un volto, chi sorriderà, chi si fermerà a lungo davanti alla stampa appesa a una vetrina.
«Se il mondo fosse in bianco e nero, forse lo capiremmo di più».

Un pensiero nato spontaneamente, che ha trovato risonanza.
Perché in quell’uniformità cromatica c’è qualcosa di democratico, di essenziale.
Il bianco e nero non inganna.
Non seduce con i filtri.
Mostra.
E ci mostra.

Un progetto del genere, in un altro tempo, forse sarebbe passato in sordina. Ma non oggi. Oggi, a quella presentazione, c’erano tutte le sedie occupate. E c’erano le persone giuste.

Il Presidente di Confcommercio Cremona, Andrea Badioni, ha parlato con chiarezza: «Abbiamo bisogno di giovani che non solo restino, ma lascino un segno. Questo è un segno».

L’assessore al Turismo e Giovani, Luca Burgazzi, ha usato parole semplici, dirette:«Dare spazio non è un favore. È un dovere. E questi ragazzi ci stanno dimostrando come si fa cultura partendo dal basso, ma con idee alte».

Anche Francesca Galli, vicepresidente di Botteghe del Centro, ha sottolineato l’importanza del tessuto cittadino, e di come le vetrine abbiano accolto questi ritratti come si accoglie un nuovo vicino di casa. «Non è stato solo un gesto artistico. È stato un modo di abitare».

Infine, la professoressa Elena Mosconi, mentore, guida, testimone della crescita del gruppo, ha lasciato una frase che è rimasta sospesa nell’aria come un augurio: «Avete studiato. Ma soprattutto: avete trasformato lo studio in qualcosa di vivo. E questa è la forma più alta di apprendimento.»

In un’epoca dove spesso ai giovani si chiede di essere pragmatici, rapidi, orientati al risultato, questo progetto ha proposto una direzione diversa. Lenta. Umana. Riflessiva.

Un’azione collettiva.
Una responsabilità condivisa.
Un esercizio di cittadinanza poetica.

Ci sono progetti che si esauriscono nella loro esecuzione e poi ci sono i progetti che generano.
Che aprono, che seminano, che resistono al tempo perché non sono stati pensati per compiacere, ma per raccontare. Il Collettivo 50mm è uno di questi.

«Anche se qualcuno non rimarrà nel collettivo – ha detto Iris, con quella sincerità che solo i vent’anni sanno pronunciare – il collettivo rimarrà».

Ed è vero. Rimarrà nei volti appesi, nelle interviste ascoltate, nei cittadini che hanno alzato gli occhi dalla routine, nella mappa della città, che ora ha nuovi punti da toccare, nuovi volti da ricordare.

Ma rimarrà soprattutto come esperienza trasformativa.
Un gruppo di ragazzi, ciascuno con il proprio timbro, la propria lente, ha scelto di non aspettare che qualcuno desse loro uno spazio. Lo hanno creato. Lo hanno allestito.
E ci si sono messi dentro.
A fuoco.

Studiare non è ripetere.
Studiare, nel senso più alto, è disarmarsi. Mettersi in posa.
Guardarsi attraverso un obiettivo, e capire che quell’obiettivo non è solo tecnico, ma esistenziale.

L’obiettivo della fotocamera ha catturato 155 volti, ma il vero obiettivo era un altro, era dire: esistiamo. Siamo qui. Siamo giovani, imperfetti, inquieti, ma abbiamo voce.
E ora questa voce abita la città.

Cremona, culla di musica e silenzi, ha accolto questa mostra con stupore, ma sarebbe sbagliato considerarla un progetto artistico e basta.
È un atto di presenza.
Una dichiarazione d’identità collettiva.
È un dire, con immagini e parole: “non siamo figuranti, siamo protagonisti”.

In un tempo dove i giovani vengono spesso raccontati dagli adulti, qui si sono raccontati da sé.
Con lentezza.
Con autenticità.
Con quel bianco e nero che non giudica, non trucca, non filtra.

L’obiettivo della fotocamera ha catturato 155 volti, ma il vero obiettivo era un altro, era dire: esistiamo. Siamo qui. Siamo giovani, imperfetti, inquieti, ma abbiamo voce

«Mi piacerebbe organizzare altre mostre», ha detto Iris, alla fine dell’intervista.
«Col collettivo, o anche da sola. L’importante è arrivare alle persone».

E in questa frase c’è tutto.
C’è la speranza.
C’è il passaggio.
C’è la cultura che si fa gesto.
C’è la giovinezza che non urla, ma costruisce.

Il progetto “Alla faccia degli universitari” è un regalo che questi ragazzi hanno fatto alla loro città.
Un dono non richiesto, ma necessario. Un invito, non un’accusa. Una mano tesa, non un pugno.

Come si conclude una storia del genere?

Non si conclude.
Si lascia in circolo.
Come un volto che hai visto per strada e che ti rimane dentro.
Come una voce ascoltata in cuffia mentre attraversi una piazza.

Come una domanda, più che una risposta:

“E se provassimo anche noi, ogni tanto, a guardarci senza filtri?”
“E se imparassimo a vedere negli altri ciò che ancora non conosciamo di noi?”

Allora, forse, diventeremmo collettivo anche noi.
E in fondo, non è proprio questo il futuro nel quale vogliamo credere?