carta

N.31 Maggio 2022

RACCONTO

Eredità

... sfiorò la carta con le dita, ne percepì l'odore che sapeva di tempo, di fiume, d'amore e di sangue...

illustrazione di Giulia Cabrini

La pesca che stava assaporando era più succosa del solito. All’ombra dell’enorme faggio Ernesto si era fermato un secondo a riposare. Il carretto colmo di grano era destinato alle fattorie della zona. Ombro, il fidato mulo, attendeva il momento della ripartenza.
Ernesto succhiò la polpa attorno al nocciolo, lo sporcò con del terriccio per asciugarlo bene, infine lo ripulì con le mani e lo ripose in tasca.

Qualche giorno dopo il giovane uomo si fermò per piantare il seme di Pesco. L’aveva lasciato seccare al sole, poi aveva estratto la mandorla dal nocciolo, rompendolo con attenzione. Lo aveva racchiuso tra due straccetti inumiditi nella madia di casa, al fresco, e aveva atteso che germogliasse.
Spostò la terra con le mani, ripose il seme e ricoprì con cura.
«Sbang, sbang, sbang!»
La Sgarza ciuffetto fu la più veloce a scappare, anche le rondini deviarono prontamente direzione, mentre lo scoiattolo si rifugiò nell’incavo di un tronco.
Non fu lo stesso per Mario, Gianni e Vittorio, che finirono con la testa nel fiume, mentre il sangue abbracciava l’acqua sulla riva e il fango sigillava le impronte degli assassini.
Ernesto si riparò tra i cespugli, attese con pazienza che il tempo portasse via il pericolo, comprese però che non avrebbe cancellato quelle immagini, di uomini abbattuti come alberi.
Si avvicinò al fiume come se dovesse avvicinarsi ad una lepre. Questa volta non per sorprendere, ma per non essere sorpreso.
Sulla riva trovò una barchetta fatta con un foglio. Cercava la corrente per navigare oltre la morte. La raccolse e la mise in tasca. Scappò correndo nel tramonto.
Una volta a casa, estrasse la lettera di carta e la lesse. Sentì il suono delle parole d’amore.
Ascoltò la speranza trascinare via il dolore.

Sentì il suono
delle parole d’amore.
Ascoltò la speranza
trascinare via il dolore

«Lo sai nonno che gli alberi sono poverini?»
«Perché Rebecca?»
«Perché continuiamo ad ucciderli per farci la carta.»
Seguì un silenzio profondo. Il silenzio della verità dei bambini; quella semplice, che non cerca scusanti o inutili giustificazioni.
Ernesto prese la nipote, la caricò sulla bicicletta e la portò dal fruttivendolo del quartiere. Acquistò una pesca, la divise a metà e ne diede una parte alla nipote.
La mangiarono nel silenzio. Rebecca sorrise, il nonno contraccambiò ma con una diversa sfumatura.
Le metà della pesca avevano sapori differenti: in uno la scoperta, nell’altro la memoria.

Qualche giorno dopo l’anziano uomo si fermò con la nipote per piantare il seme di Pesco. L’avevano lasciato seccare al sole, poi avevano estratto la mandorla dal nocciolo, rompendolo con attenzione. Lo avevano racchiuso tra due straccetti inumiditi nella vecchia madia restaurata, al fresco, e avevano atteso che germogliasse.
Spostarono la terra con le mani, riposero il seme e lo ricoprirono con cura.
«Vedi Rebecca? Bisogna restituire alla terra ciò che prendiamo. Così come dobbiamo dare valore a ciò che la terra ci mette a disposizione. Solo così un sacrificio racchiude un senso degno della vita».
La bambina si appoggiò alla spalla del nonno, respirò il profumo della sua camicia, l’odore degli anni che si consumano nella saggezza.

Qualche giorno dopo Ernesto esalò l’ultimo respiro. Santina era con lui, come sempre. Gli stringeva le mani, gli accarezzava il viso.
Ai funerali la piccola Rebecca aveva gli occhi colmi di lacrime e la gola che strozzava il pianto di dolore. Per la prima volta perdeva, sentiva l’amore lasciare la presa salda che aveva avuto fino a quel giorno.
Nel pomeriggio la nonna la prese per mano, la portò fuori a passeggiare in campagna. Si fermarono all’ombra di un grande Pesco e si sedettero insieme a terra.

«Ti ho mai detto cara di come il nonno ed io ci siamo conosciuti?»
«No.» Rispose Rebecca.
La nonna la fissò per qualche secondo. «Ero una ragazzina all’epoca, avevo sedici anni ed erano tempi di guerra, tempi di fame e di paura. Vivevo con la mia famiglia, ma quando mio padre venne a mancare per un’improvvisa malattia, mio fratello dovette prendere in mano la situazione e procurarci di ché vivere. Lavorava, ma i soldi bastavano a malapena a sopravvivere. Una sera arrivarono delle guardie alla nostra abitazione, volevano portarmi via con loro e mio fratello si oppose. Venne giustiziato in riva al fiume. Si sacrificò per me».
«Mi dispiace molto nonna, non lo sapevo.» Disse Rebecca accarezzandole l’avambraccio.
La nonna la guardò con dolcezza e proseguì: «Vedi tesoro, tuo nonno era lì quel giorno, stava piantando questo Pesco al quale siamo appoggiate ora, sentì gli spari e si nascose. Poi, quando i soldati lasciarono i corpi all’abbraccio del fiume, raccolse questo vicino al cadavere di mio fratello».

«In fondo cosa siamo,
se non come questa carta?
Figli di un sacrificio
al quale dobbiamo restituire una vita»

Santina estrasse un vecchio foglio di carta dalla borsa e lo mostrò alla nipote.

“Spero che il destino per mia sorella possa essere migliore del mio. Spero che qualcuno possa dare valore alla sua vita, poiché Santina merita un uomo che la sappia amare e che sappia prendere il suo dolore e accompagnarlo verso tempi più leggeri.
In fondo cosa siamo, se non come questa carta? Figli di un sacrificio al quale dobbiamo restituire una vita. Vittorio”

«Il nonno mi trovò, si prese cura di me. Da quel giorno non ci lasciammo più.»
Rebecca guardò la nonna, sfiorò la carta con le dita, ne percepì l’odore che sapeva di tempo, di fiume, d’amore e di sangue.
All’improvviso tutto diventò più chiaro.
Capì che se lei viveva era semplicemente grazie a quella lettera.
Fu così che Vittorio diventò un dono nella memoria e che la vita consolidò la memoria di un dono.