mattoni

N.55

SCOPERTE

Casa Capra, tra le pieghe della campagna l’arte senza etichette di un’anima tormentata

A San Daniele Po c'è l'edificio a cui Enrico Capra, geniale outsider mancato nel 2014, ha dedicato la vita e in cui ha specchiato desideri e dolori, lasciando il mondo fuori dal suo (meraviglioso) cancello decorato

Si chiamava Enrico Capra e magari ai più questo nome non dirà nulla di particolare, così come a me, fino a poche settimane fa. Eppure, Enrico era un artista, seppure irregolare, un uomo che ha scelto di fare dell’arte lo scopo della sua vita, esprimendola in una progettualità senza sosta che ha riempito ogni giorno e ogni notte dei suoi ultimi anni. E il risultato di questo fuoco sacro che ardeva in lui è ancora lì da vedere, nascosto in una borgata nella campagna al confine tra il cremonese e il parmense.

Siamo a San Daniele Po, in fondo a via Cantone, dove la strada è una serpentina stretta e aggrovigliata di curve che lascia poco alla volta il passo allo sterrato della campagna. In fondo a questa via, ultimo edificio prima dei campi, viveva Enrico Capra in quella che era la sua casa; lui l’ha resa, a tutti gli effetti, un’opera d’arte, decorandola pezzo per pezzo con mattoni a mattoncini a cui ha dato una seconda vita, rendendoli parte di un progetto che forse nemmeno lui stesso aveva ben chiaro all’inizio ma che ha preso vita e forza giorno dopo giorno, notte dopo notte, pietra dopo pietra. Mosso dal fuoco della creatività che dimorava in lui, ha recuperato vecchi mattoni di cascine ed edifici dismessi, destinati ad essere buttati e persi per sempre, dando loro una nuova vita e rendendoli parte di un unicum nel suo genere in zona.

Enrico Capra se n’è andato il 27 gennaio del 2014, quasi 11 anni fa, dopo aver vissuto la sua intera vita tra quelle mura. Dopo aver visto le foto impressionanti che si trovano in rete, siamo andati a visitarla.

Appeso al muro dell’ingresso, ci accoglie un orologio fermo alle 9.06 di un giovedì 15, chissà di che mese, chissà di quale anno; forse era già fermo quando Enrico ha lasciato la sua casa per trascorrere gli ultimi giorni in casa di riposo o forse quel vecchio orologio ha continuato a ticchettare ancora per un po’ dopo la sua morte.

Visitare questa casa è un’esperienza singolare, anche perché ormai è disabitata da anni, manca la corrente e quindi non si può accendere la luce, mentre le pesanti imposte in legno riccamente disegnate e decorate non si aprono più di pochi centimetri. Facendoci strada con una piccola torcia, però, siamo subito immersi in un mondo esasperato di decori, disegni, stanze e pertugi che si rincorrono e si intrecciano come in un labirinto, scandite da una sovrabbondanza di ornamenti sulle pareti, sui mobili, sui pavimenti, sulle ante, dappertutto.

Possiamo parlare di architettura spontanea, arte outsider o art brut, fuori dagli schemi e dalle righe. Ma Enrico probabilmente non aveva nemmeno bisogno di dargli un nome, lui non viveva di schemi e non si inseriva in quelle righe strette e rigide dei canoni e delle aspettative del mondo, era un uomo schivo al limite dell’asocialità, ma non certo per un principio di misantropia, piuttosto lui e la sua arte si bastavano, la sua casa era il suo mondo e quelle pietre erano veramente i mattoni con cui plasmava la sua realtà e il suo quotidiano. Non voleva nessuno dentro casa sua, per questo aveva costruito quel cancello in legno decorato con bianco, rosso e blu.

Siamo subito immersi in un mondo esasperato di decori, disegni, stanze e pertugi che si rincorrono e si intrecciano come in un labirinto

Per capire la sua arte, come sempre, bisogna conoscere il passato dell’artista: nato a San Daniele nel 1934 e rimasto orfano del padre Achille quando era solo un bambino, non trascorse un’infanzia felice, con una famiglia tutta al femminile ma comunque poco attenta alle sue fragilità. Neppure a scuola Enrico trovò un ambiente sereno. Però non se ne andò mai da San Daniele né da quella casa, dove visse con la madre fino alla morte di lei, nel 1970.

La casa, la costante della sua vita: Enrico decise di farne l’opera viva della sua intera e tormentata esistenza, di quell’ansia di non aver mai fatto abbastanza, nata forse dalle mancate carezze quando era solo un gracile bambino. C’è la sua arte tra quelle mura, ma in quella sovrabbondanza di dettagli e di nicchie sembra echeggiare anche il grido inascoltato di chi ha chiesto e non ha ricevuto affetto; il suo rapporto con questi mattoni è un rapporto quasi fisico, un rapporto di amore verso quella madre mancata, quella sorella che non giocava con lui, quella moglie che non aveva mai preso in considerazione. Per questo era così geloso della sua casa, della sua intimità che voleva condividere solo con quegli spazi vissuti sin dalla nascita e nei quali aveva sempre cercato tenerezza.

Quegli spazi realizzati per chiudere fuori quel mondo da cui Enrico non si era mai sentito veramente compreso

E allora Enrico probabilmente calmava questa bulimia di affetto mettendosi al servizio di questi mattoni, aggiungendo una finestra, una nicchia, un camino, una stanza, una cupola, una piastrella di cotto, un decoro sulla parete, qualsiasi cosa che quel fuoco interno gli imponeva di fare, sempre all’opera nonostante l’età che avanzava, nonostante quel fisico minuto. Perché Enrico era davvero bravo, la sua opera non era solo istinto ed estro, era anche e soprattutto perizia e competenza e lo possono confermare quelle mattonelle del pavimento messe a regola d’arte, quelle mura tirate su la notte per realizzare una cupola che resiste ancora, per costruire i mobili che teneva in casa. Mica roba che tutti riescono a fare.

Proprio sotto quella cupola, forzando un po’ le imposte, si riesce a vedere il suo banco di lavoro con tutti gli attrezzi consumati dall’uso: una pialla, delle cassette, un cartoncino che riporta i giorni di settembre scritti a biro e cancellati uno per uno con una croce, per tenere il conto del tempo che passava. Li sposto con delicatezza e quasi con reverenza, per non invadere oltre quegli spazi realizzati per chiudere fuori quel mondo da cui Enrico probabilmente non si era mai sentito veramente compreso.

Non è solo l’interno ad essere riccamente addobbato: anche la facciata esterna è un tripudio di mattoni, piastrelle e decori. Qui c’è un’edicola con la statua di Maria, a cui Enrico era molto devoto; sopra l’effigie della Vergine troviamo incastonata una foto della madre Isabella, di cui è riportato anche il nome; in alto, vicino al colmo del tetto, la foto del padre con solo alcune lettere del suo nome: HIE, Achille. Li ha messi all’esterno della casa, i genitori. Forse per renderne pubblica la memoria.

Sospesa tra genio e follia, questa arte ci ricorda le figure iconiche di Ligabue o di Van Gogh, considerati pazzi e fuori da ogni regola sociale, quando invece il loro modo di vivere era solo l’espressione di un talento talmente grande e spontaneo da risultare incomprensibile, una vita randagia e selvatica perché interamente dedicata a soddisfare il bisogno di far emergere questo urlo silenzioso, in tutta la sua potenza.

Enrico Capra ha fatto della sua casa un palazzo, un tempio delle sue sofferenze e del suo bisogno di rinascita, sapendo che quelle mura gli sarebbero sopravvissute e sarebbero rimaste lì ancora a lungo dopo la sua morte. E per farlo ha usato vecchi materiali e mattoni di risulta, ciò tutto ciò che al mondo non serviva più: Enrico gli ha ridato un posto e una dignità, ricostruendo la sua anima lacerata, mattone dopo mattone.

“L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni” (Pablo Picasso).