studio

N.60 maggio 2025

scuola

Dai testi classici una voce (sempre giovane) ai miei grandi sogni

Ad ogni lezione un piccolo laboratorio di scoperta durante il quale lo sguardo curioso dei giovani arriva a scorgere il peso del sacrificio di Enea, la disperazione dei naufraghi Troiani, l’ambiguo potere della vendetta

Ricordo distintamente il giorno in cui scelsi di studiare lettere classiche. Era una mattinata pungente e luminosa. Frequentavo la seconda elementare e guardavo tutte le macchine delle maestre e dei genitori all’uscita della scuola, una dietro l’altra, in una sequenza colorata di chiacchiere e di vita. Avevo scoperto che mi piaceva scrivere, e che la nostra lingua aveva una storia antica che volevo conoscere per poterla usare bene, per poter trovare sempre le parole giuste con cui indicare le mie emozioni e i miei grandi sogni.

A sette anni non avevo idea che la filologia fosse un mestiere. A pensarci bene, non avevo neppure idea che esistesse una cosa chiamata filologia. E però quel “amore per le parole” lo sentivo scorrere dentro già da tempo. Si stava nutrendo di curiosità quando mamma, tenendomi in braccio, mi spiegava il significato delle parole di un grande dizionario illustrato o quando papà la sera, come un aedo, dava vita a storie un po’ tradizionali e un po’ inventate, in cui Ettore e Achille si davano il cambio con Jack London e Zanna Bianca.

Avevo scoperto che mi piaceva scrivere, e che la nostra lingua aveva una storia antica che volevo conoscere per poterla usare bene, per poter trovare sempre le parole giuste con cui indicare le mie emozioni e i miei grandi sogni

Studiare i testi antichi significa per me innanzitutto imparare a comprendere il senso profondo di quello che si dice, e quindi di quello che si fa.

A cominciare proprio dallo “studio”: nella radice di questa parola si tengono meravigliosamente insieme l’amore e l’impegno, la passione e la dedizione. In latino questo nome si accompagna spesso a un genitivo oggettivo, che indica la materia verso cui si dirigono amore e impegno, una materia che va scelta con cura. Per lo studio delle discipline classiche oggi si usa molto parlare di humanities, e però io continuo a preferire l’espressione studia humanitatis. Il legame sintattico che unisce i due termini mi sembra rappresentare meglio il processo dello studio: un impegno amoroso rivolto verso ciò che è umano.

Ma che cosa è questo “umano”?

Nessun uomo sfugge alla domanda sul senso. Le risposte che sono arrivate dal mondo greco-romano, pur limitate e condizionate dalla cultura di cui sono espressione, sono spesso potenti e hanno offerto un linguaggio condiviso, a un tempo filosofico e poetico, razionale e irrazionale, capace di riaccendersi con la forza delle cose nuove quando lo lasciamo rivivere nell’oggi.

Lo spazio in cui questo miracolo avviene è per me la lezione, quel piccolo laboratorio di scoperta durante il quale lo sguardo curioso dei giovani, illuminato dall’architettura di un verso virgiliano, arriva a scorgere il peso del sacrificio di Enea, la disperazione dei naufraghi Troiani, l’ambiguo potere della vendetta.

Un testo non è un pezzo unico da tenere in una teca, da ammirare, da venerare. Possiamo, dobbiamo anzi, metterlo nelle mani dei giovani, permettere loro di scaldarlo con le loro mani calde, di percepirne la forma attraverso i loro sensi che scovano il senso

Un incontro profondo tra gli antichi e noi può realizzarsi con la forza dirompente e necessaria dell’immediatezza emotiva solo dopo aver percorso con ordine, senza saltare mai nessuna tappa, l’approfondito cammino dello studio.

Studio che è impegno, sì, ma deve essere sempre anche passione. Rifuggo la retorica del classico come “radice” culturale dell’Occidente. Ancora meno mi scaldano le argomentazioni di chi vuole attribuire allo studio delle lingue antiche un assurdo primato della logica e pretende che siano apprese solo a valle di enormi sacrifici e sofferenze, rinunce, sessioni mnemoniche e “versioni” decontestualizzate. Solo se resta agganciato al senso, il rigore non scade nella cattiveria. Il rigore linguistico è necessario perché i testi sono per noi spesso l’unica via di accesso alle culture antiche. A differenza di un cristallo, però, un testo non è un pezzo unico da tenere in una teca, da ammirare, da venerare. Possiamo, dobbiamo anzi, metterlo nelle mani dei giovani, permettere loro di scaldarlo con le loro mani calde, di percepirne la forma attraverso i loro sensi che scovano il senso. Diversamente da quanto molti pensano, i ragazzi non amano perdere tempo. Si lasciano contagiare, ma non imbrogliare. E se li contagiamo con impegno e con passione… studiano.