notte
N.58 aprile 2025
Graffiti-writing, memorie di una crew
Un gruppo di writers, oggi adulti, raccontano l'adrenalina e l'ispirazione delle missioni notturne ai margini della legalità, firmando con i colori sottopassi e fabbriche abbandonate: «Uscire alle 3 del mattino con gli spray nello zaino mi regalava la sensazione di essere il padrone assoluto di quel momento perché, in mezzo alla notte più scura, c’ero solo io con la mia missione»

“Di fatto non li senti e non li vedi e non avverti i loro schemi.
A te sfugge il concetto, vedi solo nomi, per te è una cosa semplice.
Due bombolette d’argento e una pressione grazie all’indice.
Non chiamare affreschi quelli che vedi sui palazzi, la terminologia corretta è pezzi
(Kaos One, Il Codice)
Per capire quello che chi vive di giorno non può comprendere, per provare a decodificare le scritte apparse, con il sorgere del sole, sopra i muri della città, c’è solo una strada, ed è poco illuminata.
L’abbiamo percorsa, nella penombra di muri periferici e sottopassi ferroviari, per incontrare i membri di una crew cremonese. Il termine definisce un gruppo di persone accomunate dalla passione per una delle quattro discipline che formano la cultura hip hop: breaking, graffiti-writing, rap, dj. Crew deriva da crewa, una parola inglese ormai in disuso che significava “compagno”. Infatti i membri del gruppo sono amici, complici, una squadra caratterizzata da uno stile riconoscibile e dall’obbiettivo di diffondere il più possibile il proprio nome.
I giovani adulti che incontriamo si sono adoperati parecchio, negli anni passati, per portare il nome della loro crew “in alto”. Oggi, per diversi motivi, hanno smesso di frequentare la notte armati di bombolette. È rimasta l’amicizia, insieme ai ricordi, all’amore per la cultura hip hop e qualche scritta ormai sbiadita sui muri della città.
M.B. racconta di come, più di dieci anni fa, inventasse delle scuse con i propri genitori per poter uscire la sera a dipingere: «Lo facevo almeno due volte alla settimana, adesso che ne parlo mi chiedo cosa ne pensassero. Sono convinto che, in fondo, sapessero dove stavo andando».
M. si ritrovava con i “soci” per poi andare a realizzare uno dei «mille bozzetti che avevo preparato nei giorni precedenti». Le tele erano i muri dei sottopassi ciclopedonali: «Li consideravamo le nostre palestre, dove poter lavorare con calma, senza troppa pressione». Una pratica abbandonata con la scoperta delle fabbriche dismesse; luoghi affascinanti dove, superati rovi ed arbusti, i membri della crew trovavano, anche durante il giorno, infinite pareti da poter dipingere.
«La notte – dichiara S.M. che si definisce “un animale notturno” essendo anche un dj – era una figata. Di giorno ogni membro della crew era impegnato nelle proprie attività, chi al lavoro chi all’università ma, alla sera, ci si ritrovava tutti insieme. Andavamo a prendere le bombolette al magazzino di J., poi passavamo dalle macchinette per berci un te al limone. Infilavamo gli spray nelle tasche del giubbotto e sparivamo nella nebbia, illuminando la strada con la luce dei cellulari: sono stati momenti sia divertenti che felici trascorsi tutti insieme».
E.C. ammette che, fin dagli inizi, ha preferito «vivere la disciplina in altri modi»; nello stesso tempo riconosce che «la parte notturna è molto affascinante. Con il buio, si risveglia la tua parte animale, ogni odore viene amplificato, le orecchie sono tese a captare il più piccolo rumore, ti muovi facendo attenzione a tutto. I sensi in allerta, uniti all’adrenalina, ti fanno sentire incredibilmente vivo». Ancora oggi ama dipingere ed è un artista molto apprezzato a livello nazionale e internazionale. «Rispetto alle domeniche pomeriggio che trascorro sui muri “legali”, uscire alle 3 del mattino con gli spray nello zaino mi regalava una sensazione di potere, di essere il padrone assoluto di quel momento perché, in mezzo alla notte più scura, c’ero solo io con la mia missione».
Oggi che le “missioni” sono finite, cosa rimane di quei giorni? S.D. afferma che le esperienze ai margini della legalità gli hanno fatto comprendere «quanto sia fondamentale il programmare prima di entrare in azione, in qualsiasi campo della vita» e – concetto che oggi cerca di trasmettere alle nuove generazioni – l’importanza «di assumersi la responsabilità dei propri gesti».
E. e M. concordano nell’affermare che il writing ha lasciato loro «uno sguardo speciale con cui guardare la città». M. quando, insieme al suo capo, percorre la tangenziale di Milano, percepisce come le scritte che affollano le pareti dei palazzi e dei cavalcavia siano, solo per lui, ogni volta un racconto diverso e appassionante: «Noto se è comparso un pezzo nuovo, apprezzo lo stile dei writers emergenti, riconosco le firme di artisti storici della scena milanese».
Anche E.R., percorrendo le strade della città, si accorge dello stupore dei suoi amici quando, davanti a quello che sembra un geroglifico indecifrabile, riesce agevolmente a riconoscere il nome di un artista o di una crew.
J. riprende il concetto di E. raccontando come, durante una recente visita a Marsiglia, abbia posto uguale attenzione nell’osservare sia i monumenti storici che i graffiti, «specialmente quelli che apparivano nei posti più inaspettati».
Tutti e sei concordano nel riconoscere quanto la condivisione di quelle uscite notturne li abbia addestrati a «cavarsela in qualsiasi situazione». «Allena ad un pragmatismo sempre utile, in particolare per me che ho fatto del dipingere su muro il mio lavoro» afferma J. che, in seguito, aggiunge: «Il writing mi ha permesso di maturare delle competenze che difficilmente avrei appreso altrove: come lavorare su superfici grandi in poco tempo, raggiungere un ottimo livello di precisione nel minor tempo possibile, trovare soluzioni immediate ai problemi imprevisti».
Guardandoli camminare fianco a fianco, ridere e parlare sommessamente mentre scivolano nella penombra da cui sono usciti, mi fa comprendere come l’eredità più preziosa del periodo in cui hanno dipinto sia, usando le parole di J.: «L’immediato legame che si instaura quando si condivide lo spazio su un muro in qualsiasi condizione metereologica, la complicità di quando ci si intrufola in qualche luogo abbandonato o la stanca soddisfazione di quando si rientra a casa dopo una nottata passata a dipingere insieme».
Da oggi, osservando quelli che agli occhi della maggior parte delle persone sono scarabocchi senza significato, affioreranno alle porte del mio cuore le parole con cui J., dopo la lunga chiacchierata, mi saluta: «Non ho mai fatto graffiti con la pretesa che il mio nome restasse ad imperitura memoria, ma per il fascino di prendermi uno spazio in cui lasciare un segno del mio passaggio».