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N.60 maggio 2025

rubrica

Lo sguardo di Salgado ha la vastità dell’umano

Nel documentario "Il sale della terra" l'occhio di un grande regista come Wim Wenders studia la realtà attraverso l'occhio del grande fotografo brasiliano

In quanti modi si esercita uno sguardo? Il dizionario ne fornisce un campionario attraverso i sinonimi del verbo guardare: osservare, adocchiare, fissare, sbirciare ma anche, se si aggiungono locuzioni e modi di dire, dare un’occhiata, fissare intensamente, guardare di sottecchi e, perché no, studiare.

Uno sguardo attento è la condizione essenziale per esercitare quella funzione di “esame accurato, diligente” che sta alla base dello studio. Nella teoria del cinema si usa il termine gaze per indicare proprio questo sguardo intenso, opposto al glance che identifica l’occhiata fuggevole. Imbracciare una macchina da presa significa operare uno sguardo che, se si posa sulla realtà, ne diventa uno studio. È quanto avviene nel documentario, un ampio e sfaccettato genere cinematografico che identifica un oggetto da esplorare su base realistica ma secondo un preciso punto di vista, un aspetto che ne fa una pratica autoriale.

Imbracciare una macchina da presa significa operare uno sguardo che, se si posa sulla realtà, ne diventa uno studio

Così Wim Wenders, cineasta amato da diverse generazioni di spettatori per il suo sguardo asciutto e denso, fortemente ancorato al reale e insieme capace di una sua rilettura poetica, si concede frequenti incursioni nel documentario attratto ogni volta da oggetti e temi differenti. È in particolare nel decennio appena terminato che si concentra su alcune figure che costituiscono dei punti di riferimento sia in se stessi sia per il messaggio che incarnano: si tratti del teatro-danza di Pina Bausch, che può raccontare con la tecnica immersiva del 3D (Pina, 2011), oppure della predicazione di papa Francesco (Papa Francesco – Un uomo di parola, 2018) che alterna immagini di repertorio a lunghe interviste, o ancora alla fotografia di Sebastião Salgado in Il sale della terra (2014), codiretto con il figlio del fotografo di recente scomparso, Juliano Ribeiro Salgado.

Poco importa che questi documentari nascano anche su commissione: lo sguardo di Wim Wenders opera uno scavo in profondità, un vero e proprio studio su chi gli sta davanti, senza retorica ma con empatia e insieme distacco.

Nel film su Salgado è prima di tutto la natura stessa del mezzo espressivo a essere chiamata in gioco: per un cineasta fotografo come Wenders fare un film su un celeberrimo fotografo significa riflettere sullo strumento attraverso il quale si guarda il mondo, sulla sua forza creatrice e disvelatrice. È lo stesso regista, nel film, a dichiararlo: «Avere un fotografo davanti alla macchina da presa è molto diverso dal riprendere chiunque altro: non sta fermo lì ad interpretare se stesso, per esempio parlando; per professione reagisce e risponde usando lo strumento che ha scelto, la macchina fotografica. Ribalta la situazione».

«Avere un fotografo davanti alla macchina da presa è molto diverso dal riprendere chiunque altro: non sta fermo lì ad interpretare se stesso… Ribalta la situazione»

Alternando le immagini di Salgado con la macchina fotografica alle sue foto, Wenders sembra volerne ricostruire il punto di vista. Ma il cinema fa di più: visto in sala, Il sale della terra ha il potere di operare una dilatazione allo sguardo di Salgado, un ampliamento delle immagini, di per sé già grandi, che proiettano il loro significato su di un orizzonte ulteriore, quasi metafisico. Anche nel raggelamento espressivo del bianco e nero – cifra espressiva di Salgado, e amatissimo da Wenders – i due artisti lasciano che le immagini assurgano a un significato più ampio, assoluto. Ogni tanto il video, a colori, riemerge delicatamente, a sottolineare l’aspetto narrativo del documentario: ma sono le fotografie a dominare, nel lungo dipanarsi del racconto, trattenute quel tanto che basta per mandarle a mente, senza poterle più dimenticare.

C’è un altro aspetto che accomuna i due artisti, e che viene alluso all’inizio del documentario: quello della vastità dello sguardo. Salgado entra in scena dall’alto di una collina, da dove può osservare un panorama straordinariamente ampio, con diversi livelli di montagne e un paesaggio articolato davanti a lui. È lo stesso punto di vista di chi ha esplorato gli ampi paesaggi americani e di chi ha raccontato lo sguardo celeste degli angeli ne Il cielo sopra Berlino (1987); o ancora, per parafrasare due altri titoli di Wenders, di chi non teme di spingersi Fino alla fine del mondo (1991) e sa articolare il proprio sguardo su più livelli, Così lontano, così vicino (1993).

Anche per Salgado, la vastità di orizzonti fa tutt’uno con la capacità di soffermarsi sui singoli, sulle persone viste una per una con le loro storie, memore della lezione della fotografia americana – da Paul Strand a Jacob Riis, da Lewis Hine a Dorothea Lange – riletta però in una chiave più spiccatamente antropologica.

Ancora una volta è lo stesso Salgado a sottolinearlo: «Se metti diversi fotografi in uno stesso punto, credo che faranno sempre delle foto molto diverse, perché necessariamente vengono da esperienze molto molto diverse. Formano il loro punto di vista ciascuno in funzione della sua storia».

Il viaggio fotografico del brasiliano Salgado, qui tratteggiato attraverso le raccolte di carattere artistico, omettendo l’aspetto più quotidiano e prosastico, alimentare del lavoro del fotografo, si origina dalla lunga esplorazione del Sudamerica (Otras Americas, 1977-1984), dove Salgado incontra una pluralità di popoli di cui riesce a cogliere l’essenza, e si fa sempre più distillato nelle opere successive, come in Workers – la mano dell’uomo (1986-1991), una indagine sul lavoro umano e sulla fatica manuale (premoderna) di uomini sparsi alle diverse latitudini della terra che ne svela l’aspetto più epico. Il viaggio di Salgado si fa però anche dolorosa testimonianza dell’umanità più nascosta e abbandonata, come in The End of the Road (1984-1986), sulla carestia nel Sahel, o nel drammatico Exodus (1993-1999), nel quale affronta le migrazioni dei popoli spinti dalla fame o dalla politica attraverso India, Vietnam, Filippone, Sudamerica, Rwanda.

Le grandi fotografie di Salgado si tingono di morte: lo sguardo rimane fermo – anche se commosso – ai più tragici (e ingiusti) bordi della vita, dove l’umanità è ricacciata oltre i limiti della sopravvivenza. Wenders affida alla voce calma del fotografo un messaggio che arriva intatto all’attualità delle guerre odierne: «Sapere che un governo trattiene i viveri, che non lascia arrivare l’alimentazione al suo popolo, come succedeva qui specificatamente in questo campo al nord dell’Etiopia, era di una disonestà politica brutale». Testimone coraggioso di morti ingiuste, di genocidi, di violenze efferate, di rassegnazione, di malattie, Salgado soffre l’orrore per la specie umana; si svuota, sentendo forse l’inanità della testimonianza, tanto del dimenticato Rwanda quanto della vicina Ex Jugoslavia, di cui documenta la guerra.

Ma è recuperando l’ampiezza dello sguardo, tanto sull’asse storico quanto geografico, che opera negli anni seguenti una sorta di auto-terapia. In Genesi (2004-2013) compie un’esplorazione nei cinque continenti alla ricerca di ambienti ancora allo stato naturale dove spazi, animali, esseri umani si fondono insieme, quasi a ricreare non solo una sorta di paradiso perduto, ma a dilatare su un asse universalistico e metastorico il destino di quei popoli che ha visto soffrire e spegnersi. Un’ansia di vita che si traduce in una nuova cura per il pianeta, che è la casa di tutti, e che può ospitare uomini e animali, a condizione che nessuno si arroghi a giudice o padrone.

Forse è solo arrivati alla fine del film che se ne capisce meglio il titolo, quella citazione di Matteo 5, 13 dove ogni parola prende realmente significato: il sale della terra sono le persone, tutte le persone che Salgado ha fotografato instancabilmente, nella loro bellezza, nella loro significatività a volte drammatica. Ma anche la specificazione “della terra” è importante perché la relazione tra umanità e ambiente, tra popoli e terre, tra persone e mondo è quella che definisce il nostro vivere, il nostro permanere qui, nel presente della storia, per tutto il tempo che ci è dato.

Per chi si accosta allo studio di Wenders su Salgado cercando di assorbirne lo sguardo, in una sorta di visione caleidoscopica, senza mai distogliere l’occhio, il premio è grande. È la rivelazione di noi stessi come esseri umani, e di ciò che rappresentiamo nell’ingranaggio del mondo.