legami
N.56 gennaio 2025
«Solo il tuo vicino è uno straniero»
Il cinema celebra il senso di fratellanza tra esseri umani come antidoto alla violenza e alle costrizioni, come atto di resistenza pacifica alle ingiustizie
Nella sua celeberrima analisi della società postmoderna, Zygmunt Bauman individuava tra le caratteristiche del tempo presente l’incertezza e la provvisorietà. Si tratta di tendenze tipiche di quella “liquidità” che connota le diverse esperienze umane nella nostra società, una liquidità che comporta anche il venir meno di relazioni forti, di legami significativi e duraturi, sostituiti da rapporti competitivi o al più superficiali e basati sull’interesse. In questa situazione di instabilità e continuo movimento, anche le agenzie sociali tradizionali come la famiglia e la comunità perdono forza, soggette come sono a continue evoluzioni e trasformazioni che ne accentuano la precarietà.
È interessante vedere in quali modalità il cinema filtri i mutamenti sociali, sia pure nella caleidoscopica molteplicità di forme, generi, sensibilità di sceneggiatori e registi. La famiglia – meglio se disfunzionale – ritorna spesso nella serialità, anche per dar corso a trame che si dipanano attraverso una pluralità di soggetti e in un arco cronologico esteso. Basti pensare a titoli molto differenti e per tutti i tipi di pubblici, da Succession al reboot Dynasty, da This is us o Parenthood fino a Shameless, solo per fare qualche esempio. Ma accanto alla dimensione della famiglia, che si richiama tutto sommato a una concezione abbastanza tradizionale dei legami, sebbene aggiornata ai nuovi tempi, emergono nuove forme di rappresentazione della socialità, questa volta basate su rapporti orizzontali, e non necessariamente riconducibili al legame di sangue. Penso a termini come “brotherhood” e “sisterhood”, letteralmente fratellanza e sorellanza, che entrano a far parte non solo del lessico delle generazioni più giovani, ma che contengono spesso un riferimento a una socialità alternativa, comunque rilevante.
Sempre con riferimento al cinema e alle serie, si può citare Brotherhood, una serie basata sulle vicende di due fratelli di origine irlandese che a Providence, città capoluogo del Rhode Island, percorrono strade molto diverse – ma interrelate –, come la politica e la mafia; oppure al film semi-documentaristico omonimo di Francesco Montagner, premiato al festival di Locarno del 2021 con il pardo d’oro, che racconta la difficile vita di tre fratelli, pastori bosniaci, i quali debbono sopravvivere all’assenza del padre, incarcerato per motivi legati al fondamentalismo islamico. Proprio la mancanza del genitore, e di quello che rappresenta riguardo alla trasmissione dei valori, provoca un ripensamento nei fratelli, scrutati da una macchina da presa che si fa vicina per cogliere nel presente e nella difficoltà di un lavoro quotidiano legato alla terra i segnali, minimi, di un futuro possibile.
In senso più ampio, il termine brotherhood fa riferimento a situazioni di forte condivisione che determinano un’unione profonda. Si tratti dei giovani che devono far fronte a una tempesta durante un viaggio in canoa, di cui racconta il film canadese Brotherhood di Richard Bell (2019), o ancora, nel film di Nicolò Donato (2009) dal medesimo titolo, risponde alla comune militanza neonazista che per i due protagonisti si trasforma in una relazione omosessuale, repressa dal gruppo di cui fanno parte.
Parallelamente, ha preso piede negli ultimi anni anche il termine di sisterhood, benché più raro nell’uso, collegato all’idea di solidarietà ed empatia tra donne, a prescindere da etnia, religione, professione e livello socio-culturale, come alleanza destinata a produrre dei cambiamenti sociali, in opposizione alla cultura del patriarcato. Nel cinema Sisterhood è il titolo del documentario di Domiziana De Fulvio (2020) incentrato su giovani donne che giocano a basket in campi di strada a Roma, Beirut e New York. Ma vi sono anche altre storie che scavano nelle relazioni tra ragazze, per farne emergere il portato di solidarietà soprattutto nelle situazioni di difficoltà.
Dunque la forza dei legami tra pari costituisce il principale antidoto alla violenza e alle costrizioni che la società moderna impone alle persone più deboli, il cui grido fatica a risuonare nel frastuono spesso operato dai media, dai social e da quanti fanno la voce grossa.
È il caso del recente documentario No other land, realizzato da un collettivo di registi palestinesi e israeliani e premiato al festival di Berlino, candidato al premio Oscar. Girato prima del 7 ottobre 2023, il film documenta la demolizione delle case degli abitanti di un gruppo di villaggi della Cisgiordania intorno a Masafer Yatta da parte dell’esercito israeliano per fare spazio a una vasta zona di addestramento militare. Basel Adra, un giovane palestinese, co-regista e protagonista del documentario, imbraccia la telecamera per riprendere i numerosi espropri e le devastazioni operate dalle ruspe dell’esercito, facendo della documentazione un atto di resistenza non violenta. Alla distruzione sistematica, i contadini oppongono la resilienza della ricostruzione, nella tenace speranza di chi non vuole vivere in nessun’altra terra se non nella propria, come recita il titolo. L’azione non violenta del giovane è supportata da Yuval Abraham, un giornalista israeliano suo coetaneo il quale, potendosi muovere liberamente nella zona, va a trovare Basel e lo sostiene con una vicinanza materiale (nello sforzo della ricostruzione) e amicale.
L’infuriare della guerra tra Hamas e Israele ha provocato reazioni molto diverse al film a seconda delle varie posizioni politiche, benché l’intenzione dei registi di No other land non fosse quella di alimentare odi o conflitti, piuttosto di mostrare l’importanza di riconoscere a tutti, palestinesi e israeliani, dei diritti fondamentali, anche attraverso una resistenza pacifica e legale all’ingiusta politica degli espropri. Ma ciò che è stato soprattutto trascurato dalla lettura in chiave politica del film, è l’importanza del rapporto di amicizia e solidarietà, si può dire di fratellanza, che si crea tra Basel e Yuval, i due giovani attivisti. Seppure divisi dall’etnia e da un confine invalicabile per il palestinese, essi affinano la comunanza linguistica per parlare, per conoscersi e capirsi, sentendosi compartecipi di un senso di fratellanza tra esseri umani. Yuval viene persino accusato di rinnegare l’identità israeliana per solidarizzare con il palestinese Basel. Ma è nel nome di una più alta forma di incontro, di relazione con l’altro che matura la solidarietà che fa dei due giovani non più degli esponenti di due forze in conflitto tra di loro, ma due amici, legati dalla comune passione per un mondo più umano e più giusto.
Una lettura concentrata solo sulle ragioni della guerra impedisce di cogliere la portata rivoluzionaria del legame tra persone solo apparentemente diverse; la pressione degli stereotipi chiude gli spazi di libertà che alimentano la fiducia nelle relazioni.
È ancora Bauman a ricordare, in Intervista sull’identità (2003), le parole di un manifesto affisso sui muri di Berlino nel 1994, «Il tuo Cristo è un ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero».
Perché ci sono regole e regole.