studio
N.60 maggio 2025
Tutto lo studio che serve per fare (vera) arte
Non si crea arte improvvisando un evento artistico “così, come viene-viene, se viene, l’importante è crederci”
“Tutto è arte e tutti possono farne”, diceva George Maciaunas, fondatore del movimento Fluxus agli inizi degli anni 60. L’apparenza è quella della frase ad effetto: l’arte da realizzare come una passeggiata in centro o da regalare al primo che passa come un chupa-chups. Niente di più falso; l’arte è oggetto prezioso, luccichìo di forma, dialogo fra novità e pregresso, acutezza di ingegno; tutte cose che si ottengono attraverso quel dettaglio che si chiama in gergo accademico “tecnica” e che in pratica è studio, saper disporre piccoli Lego in incastri giudiziosi, confronto, cultura specifica, capacità di creare forme simili ma non identiche ad altre forme. No, non si crea arte improvvisando un evento artistico “così, come viene-viene, se viene, l’importante è crederci”; in questo modo si scimmiotta il fare arte. Il perché è presto detto: l’ascoltatore/fruitore non riesce a cogliere il filo interiore, non ne cattura il nesso e alla fine è lì che si pone quella domanda che spesso non si ha il coraggio di fare a voce alta: ma cosa voleva dire? Oppure non vede dove sia il bello musicale e quindi non sa che farsene della de-mitizzazione, de-realizzazione, anti-accademismo, del recidere-ogni-legame-con-il-passato, dell’originale-a-tutti-i-costi.
Di esempi di pseudo-arte in musica se ne possono fare tanti, a partire dalle sperimentazioni futuriste di Luigi Russolo, ossia di quei brani composti per strumenti detti intonarumori; la musica era fatta di rombi, tuoni, scrosci, sibili, stridori scricchiolii, grida, gemiti, risate, rantolii; al primo concerto, il 21 aprile 1014 a Milano, il pubblico fischiò e aggredì gli autori…
Una tappa significativa verso l’assoluta libertà di espressione fu quella di John Cage; per lui, al pari del ready-made del suo amico Marcel Duchamp, l’arte è qualcosa a disposizione, basta assemblarla. Come? Attraverso l’alea, la composizione indeterminata, gettando i dadi e facendo in modo che questi di volta in volta generino una serie casuale di suoni. Il suo intento è imitare la natura – che opera, secondo lui, casualmente – e rendersi conto del fluire del tempo.
Peccato che anche qui si fa un discorso filosofico e si sottrae dalla musica quello che ne è la sostanza, l’esprimere un io, un comunicarsi e un rispecchiarsi fra persone, una costruzione dell’intelligenza e una possibilità del ripetersi di un bello artistico. No, qui tutto è caso e irripetibilità; forse il mondo è così, ma allora perché l’uomo va in cerca di persistenze della memoria e punti di appoggio stabili? L’arte probabilmente è un trovare se stessi più che un riconoscersi persi nel divenire. Persi come lo sono gli ascoltatori della Music of change, risultato che voleva l’autore e che indubbiamente ha ottenuto…
Anche il jazz ha avuto il suo momento di free, di libertà assoluta, fra gli anni 50 e 60; lo scopo era nobile, quello di rivendicare la libertà e l’affrancamento dei neri americano dal razzismo dei bianchi e i mezzi ne erano la conseguenza: musica completamente al di fuori dagli schemi, ritmi frammentati, nessun punto di riferimento collettivo, suono al limite dei rumori, improvvisazione allo stato di puro spontaneismo, come di chi dice parole in libertà. Probabilmente vi si può percepire una grande energia e voglia di affermarsi senza condizionamenti sociali, come si sente nelle performances di Cecil Taylor o degli Art Ensemble of Chicago; ma bisogna ammettere che ben poco resta dopo lo sfogo urlato, né dettagli da riascoltare e neppure proporzioni e riferimenti intelligenti. E poi vien da chiedersi: se ognuno fa musica come vuole, chiunque può fare la stessa cosa (come in realtà avviene: tutto è uguale fra gruppi free); anche qui però possiamo essere certi che il suo sarà un gesto incontrollato “simile” a quello dell’artista, ma non creerà arte perché il suo non è un atto modellato dallo spirito, ma semplice avvenire che non dà conto dell’intera realtà, solo dell’ego del musicista.
La ruota di bicicletta di Duchamp messa al centro dell’attenzione dice semplicemente un pensiero sull’arte, ossia che qualsiasi cosa messa in cornice assume la posizione di opera d’arte; ma non essendo alcunché di bello resta appunto solo pensiero, demitizzante, problematico e nichilista (nel senso che l’autore ha niente di suo da dire).
Quel mettere i suoni in partitura a casaccio come farebbe un dilettante, quel mettere i rumori della natura al posto di note ripetendo quel che già avviene in natura, quel fare ritmi senza regola come già avviene nella vita di ogni giorno, quel cantare melodie senza criterio come farebbe uno sotto la doccia, quel fare armonie insensate come fanno gli orchestrali prima del concerto, non arrivano a creare un “bello” estetico, ma solo un apparire dell’essere in musica. Probabilmente l’arte, proprio perché è un manifestarsi ordinato e stretto in una forma dei suoi elementi, ha bisogno di applicazione lenta, paziente, di disponibilità a cantare per gli altri studiando il mondo in comune.
E pensare che già Mozart diceva che in fondo la musica deve restare pur sempre… musica.