studio
N.60 maggio 2025
Croce e risurrezione tra le vite del “bairo”
Un Triduo pasquale vissuto nella favela di Salvador de Bahia, tra violenza e degrado. Dove i figli di gang rivali giocano nella stessa squadra e un laboratorio di teatro ha il potere di trasfigurare la realtà

Il giorno della partenza cade di giovedì santo. Il cielo è cupo, piove e soffia un forte vento freddo. L’aereo al decollo, dopo essersi sollevato da terra, punta dritto quelle nuvole nere mentre il vento lo fa sobbalzare. Alcuni si tengono ai braccioli e guardano in alto, altri non guardano nulla, qualcuno magari prega, altri dormono già.
L’aereo procede sicuro, sembra averne passate di peggiori, e dopo qualche minuto di turbolenza raggiunge un cielo completamente diverso: azzurro e limpido. Un bambino che avrà all’incirca 5 anni seduto dietro di noi, alla visione di quelle nuvole sfolgoranti e soffici esclama: «Mi sa che l’universo non sa cosa si perde delle cose sulla terra. Delle cose bellissime…»
La frase di quel bambino diventa l’antifona più bella del nostro giovedì santo. Non sapevamo che sarebbe diventata la chiave di lettura dell’esperienza che stava iniziando. Viviamo nell’inconsapevole presunzione di conoscere quasi tutto, per lo meno il necessario per barcamenarsi nelle nostre giornate, ma occorre passare per turbolenze e scossoni, e uno sguardo limpido e senza schemi, per vedere lo splendore nascosto oltre la superficie.
Si viaggia verso ovest seguendo la luce che ora dopo ora lotta con l’oscurità fino a diventare una sottile striscia all’orizzonte. Una linea infuocata e poi viene il buio.
Arriviamo di notte. Don Davide e Gloria sono venuti a prenderci, e durante il viaggio in macchina di ritorno dall’aeroporto abbiamo giusto il tempo di sbirciare Salvador de Bahia dal finestrino e vedere come gli edifici imponenti della zona dell’aeroporto degradano progressivamente a enormi complessi di baracche precarie e pericolanti.
Don Davide non si ferma ai semafori rossi. Alla seconda infrazione lo guardo incuriosito. Anticipa la mia domanda dicendo che dopo le 22 vige il tacito accordo di non fermarsi ai semafori per evitare gli assalti di possibili rapinatori.
Don Davide non si ferma ai semafori rossi… dopo le 22 vige il tacito accordo di non fermarsi ai semafori per evitare gli assalti di possibili rapinatori.
Arriviamo in parrocchia nella notte tra giovedì e venerdì. Dal sagrato si vede la favela, o meglio il Bairo (quartiere). Al buio sembra uno di quei bei borghi d’Italia, da lontano si scorgono tante piccole abitazioni illuminate «come un presepio» dice il don con un’ironia carica di gravità. Da quelle vie arriva musica a tutto volume, di notte. Sembra ci sia una festa ad ogni angolo.
Finché c’è musica si può stare abbastanza tranquilli, è quando le serate si fanno silenziose che bisogna preoccuparsi, ci dicono.
Andiamo a letto. Il giorno dopo è venerdì santo.

Alle 6 del mattino, è prevista una via Sacra (via Crucis) per le vie del bairo composto da cinque quartieri e rispettive comunità. Gloria, tra il serio e l’ironico per alleggerirci la levataccia, ci dice che la via Crucis ci offre la fortuna di camminare per strada liberamente, andando piano, senza correre pericoli. Così da poter avere un primo scorcio del bairo, della sua estensione, quasi proporzionale al suo degrado, della varietà delle vite e delle persone che lo abitano. Una croce di legno semplice sfila tra case fatiscenti, senza intonaco, senza pittura, senza infissi, senza pavimenti, senza colore, senza fognatura. Gli occhi dei partecipanti sono sulla strada intenti a schivare lo scarico che scorre a cielo aperto. Un intricato groviglio di fili elettrici abusivi passa sopra le teste di tutti. Da quelle abitazioni spuntano occhi di grandi e bambini curiosi, attenti, svogliati, pigri, umani comunque attratti da quel piccolo semplice corteo.
Non ci sono turiboli, incensi, segni esteriori particolari; solo fede, in svariate e sfilacciate forme. Un gruppo di uomini gioca a calcio (alle 6 e mezza del mattino) e quando passa la croce si ferma: chissà se per rispetto o per fastidio.
Una croce di legno semplice sfila tra case fatiscenti, senza intonaco, senza pittura, senza infissi, senza pavimenti, senza colore, senza fognatura
Cosa significano quelle scarpe appese ai cavi elettrici volanti? «Segnalano una piazza di spaccio». Le scarpe appese sono un po’ ovunque. «Lì hanno sparato. Lì un’incursione della polizia ieri ha fatto 15 vittime, poi è tornata il giorno dopo e ne ha fatte altre 8…”
Gli odori sono insopportabili. Il cielo è azzurro candido. Il sole comincia a scottare, sono le 7 del mattino. La via Crucis liturgica dura due ore, quella umana ogni giorno. I bambini giocano per strade sorvegliate da gerarchie armate. Ogni strada ha il suo grado di rischio. L’alcol è una piaga dolorosa. Le madri ubriache davanti ai figli piccoli o con neonati al seno sono una visione alla quale non siamo abituati. La droga miete vittime così come il suo traffico e si arriva a toccare con mano che almeno ogni famiglia ha un morto ammazzato. La violenza la fa da padrone. Tutto questo si sapeva, ma diventa palpabile. Diventa realtà così come la paura a girare per le strade da soli, così come l’abitudine a non considerare il tempo serale come una possibilità di vita.
Privazioni di libertà e preoccupazione perenne a cui non siamo minimamente abituati. Ingiustizia, impotenza, rabbia, paura, sono i sentimenti di questo interminabile venerdì santo. L’anima viene graffiata ad ogni immagine straziante. Capita di incrociare uomini insieme a bestie frugare tra i rifiuti, di conoscere ad ogni via storie di abbandono, di violenza e di abuso che si imprimono negli occhi.
C’è il tempo del sabato santo fatto di sgomento, silenzio, smarrimento, di «ho bisogno di stare da sola». È un tempo caratterizzato anche da discorsi, pensieri, arrovellamenti, rimuginazioni come i tanti e bei momenti di confronto con don Davide e Gloria. Occasioni per sfogarsi, sostenersi, interrogarsi… Quindi? Cosa si fa? Che senso ha? Cosa si può fare? E adesso? Tutto è inutile? Servo a qualcosa? Serve a qualcuno? Cosa raccolgo? Cosa sto sacrificando?
Servo a qualcosa? Serve a qualcuno?
Occasioni di dialogo che avvenivano spesso durante i pasti a porte chiuse mentre il bairo faceva risuonare la sua solita musica, mentre il ciclo dell’alta e bassa marea della Bahia segna lo scorrere preciso del tempo. In questo interminabile clima estivo, prigionieri di un bellissimo agosto che non finisce mai, durante quelle occasioni ci siamo sentiti accompagnati dai nostri amici missionari a leggere fenomeni così distanti senza cedere alla tentazione di una fuga o di una chiusura.
Ci guidano con l’intelligente ironia di chi ti sminuzza la realtà e cerca di renderla un boccone un po’ meno indigesto di quanto non sia stato per sé, a suo tempo. Pranzi e cene diventavano cenacoli di confronto, viaggi in macchina verso comunità a pochi chilometri diventavano strada di Emmaus in cui modellare i pensieri, per provare a dare forma anche ai più pesanti e contorti.
Ci sono stati innumerevoli segni di resurrezione, che come al solito sono da scovare, da saper vedere. Molto distanti da quelli presentati e gridati a suon di megafoni e grande clamore dai pastori delle innumerevoli chiese, sette, confessioni che spopolano ogni due case. Sono da rintracciare in modo più flebile dentro le storie disastrate delle persone. Allora c’è Neno, malato di poliomielite che dopo anni di elemosina al semaforo impara a disegnare tenendo non si sa come il pennello tra il mento e il polso; c’è la signora che grazie all’aiuto della comunità riesce a vivere in una casa vera, con il pavimento e un tetto che non sia di eternit; ci sono Anna e Reno della Papa Giovanni XXIII che hanno adottato negli anni decine di ragazzi e si preoccupano della loro crescita; ci sono più di duecento bambine e ragazze che vivono in buchi di fogna ma che grazie al laboratorio di danza della parrocchia rinascono, splendono, incarnano quella dignità che fuori è strappata loro da sempre; ci sono i ragazzi e i bambini che vengono agli allenamenti di calcio e durante le partite imparano a lottare con un pallone ai piedi piuttosto che con una pistola in mano; c’è qualche giovane che sceglie di frequentare l’università e scopre l’impegno.
Ci sono più di duecento bambine e ragazze che vivono in buchi di fogna ma che grazie al laboratorio di danza della parrocchia rinascono, splendono; ragazzi e bambini che vengono agli allenamenti di calcio e imparano a lottare con un pallone ai piedi piuttosto che con una pistola in mano
C’è Gloria che porta colore negli asili e in un’infanzia destinata al grigio. E c’è don Davide che con le sue visite porta con la Comunione, anche la speranza di essere visti ancora, di esistere ancora per qualcuno, a persone che altrimenti sprofonderebbero nel buio asfittico della baracca, nel puzzo di un becco dimenticato dal mondo.
Lo capiamo quando la statua di Gesù risorto viene portata in processione per le vie del quartiere. Non c’è niente di sfarzoso. Solo imperfetta, disperata, strenua fede. La parrocchia di Cristo resuscidado per la sua festa patronale porta in processione il suo desiderio di vita che in mezzo a tanta morte risuona e grida ancora di più.
Scegliamo di dire solo “sì” a qualsiasi proposta arrivi. Proviamo a fare solo questo. Dire di “sì” a quello che ci chiedono e che speriamo risponda a qualche bisogno, anche piccolo, di questa realtà.
Facciamo teatro per aiutare ragazzi e ragazze a guardarsi negli occhi e a toccarsi senza paura. Accompagniamo bambini e ragazzi sul palco che diventa spazio su cui agire ed essere protagonisti, metafora di un mondo dove le cose si possono cambiare.
Il teatro che cura e trasforma, che genera bellezza e trasfigura la realtà.
Sosteniamo Gloria nel lavoro a scuola, nel raccontare le storie di bambini e ragazzi che hanno fatto la differenza nel loro paese di origine. Collaboriamo a laboratori creativi che mettono vicini figli di bande rivali con un pennello in mano. Giochiamo con i bambini e le bambine che non hanno camere piene di giocattoli e libri. Pochi e semplici oggetti diventano strumenti di relazione e fantasia. Assistiamo agli incontri di catechesi e partecipiamo alla preparazione della festa patronale. Facciamo visita alle persone. Facciamo la spesa, laviamo i piatti, come a casa.
Lunedì dell’angelo arriva la notizia della morte di papa Francesco, in ritardo di qualche ora di fuso orario. A Salvador il clamore mediatico non è quello che si vive in Italia, così vicina a Roma e al suo Papa. La notizia ci colpisce e ci stringe in uno smarrimento che ci accomuna tutti, ma guardando fuori dalla finestra quasi ci sembra di vedere quella “fine del mondo” da cui Bergoglio diceva di provenire. Diventa spontaneo ripensare alle diverse espressioni di papa Francesco che lì diventano più chiare.
Quando parlava di “Chiesa in uscita” forse si riferiva proprio a questo rischioso andare per le strade (anche nei becchi più pericolosi), a questo modo delicato di entrare in vite dismesse, a questo visitare case che non capiamo come possano essere definite tali, perché come ci dice don Davide: «Altrimenti qui non verrebbe nessuno». La Chiesa diventa un “ospedale da campo” perché in quel bairo offre l’acqua, le ceste basiche e si prende cura delle persone. L’annuncio di misericordia diventa necessario alla vista di chiunque viva in questo luogo: viene da chiedersi che male hanno fatto per nascere in questo posto.
Viene da chiedersi che male hanno fatto per nascere in questo posto
A conclusione del nostro viaggio come in un lunedì dell’angelo bisogna scegliere se credere che la speranza sia stata rubata o se essa sia viva, disseminata nelle parole e nei gesti vitali sparsi nel mondo. Don Davide e Gloria dicono che occorre «credere nella favela». E allora eccole le parole di quel bambino sul volo di andata che tornano in mente: “Mi sa che l’universo non sa cosa si perde delle cose sulla terra: delle cose bellissime…”.
Ripartiamo di sera. Nelle tasche tornano portafogli, cellulari, catenine al collo, la fede al dito. Oggetti preziosi lasciati nascosti per giorni. Segni esteriori di una vita a cui torniamo, ma che vorremmo fondere con questa. Il bairo appare ancora arroccato nelle sue lucine abusive: sembra un presepio. La musica continua.

Un enorme grazie a don Umberto dell’Ufficio Missionario per averci preparato e accompagnato anche a distanza, a don Davide e Gloria per la bellezza costruita in questi anni.