bontà

N.53 Ottobre 2024

incontri

La strada per la felicità di un ex “poco di buono”

La storia di Francesco Ghelardini, ex rapinatore di banche: «Oggi guido le ambulanze, mi piace da matti. Sento di aver trovato la mia strada e ogni mattina mi sveglio felice»

Ci sono interviste che ti sfuggono di mano. Tu stesso, mentre prendi appunti e ascolti l’interlocutore, sei consapevole di quanto sarà difficile comprimere quell’incontro in 5000 battute. Questo è uno di quei casi.

Il viso di Francesco Ghelardini, durante la videochiamata, appare lievemente distorto sullo schermo del telefono; un’alterazione che lascia immutato lo sguardo, mobile e attento, il sorriso gentile e affabile.

Mi chiede se sono di Cremona perché lui, nel 1993, era in città, ospite della Casa Circondariale. «Quando arrivai, la direttrice Bellezza mi conosceva bene a causa del periodo di detenzione un po’ agitato che avevo trascorso a Brescia. Mi intimò di “stare schiscio” perché mi avrebbe tenuto d’occhio. Fortunatamente fu una buona esperienza: ero sereno nonostante la mancanza di libertà. Così, un giorno, la direttrice mi convocò nel suo ufficio. Era primavera, le finestre erano aperte e la dottoressa mi chiese come mi sembrava poter osservare il paesaggio senza le sbarre. È bello, risposi. E se fosse così tutti i giorni? Mi chiese di nuovo. Da quel giorno, trascorsi parecchio tempo fuori dalla cella, ad occuparmi della manutenzione del giardino».

Proviamo a riavvolgere il nastro, tornando alla prima volta in cui hai varcato le porte di un carcere. «È stato al Beccaria, l’istituto penale per minorenni di Milano: un posto brutto e freddo, esattamente come è adesso. Un’esperienza breve perché soltanto dopo una settimana di detenzione, avevo ricevuto il perdono giudiziario: una decisione deleteria perché non mi permise di comprendere ciò che avevo fatto. Appena uscito, ricominciai esattamente da dove avevo smesso; fu un’escalation: prima le rapine ai parrucchieri, poi i piccoli supermercati, per passare a quelli più grandi; infine le banche, fino a che non mi fermarono».

Soltanto dopo una settimana di detenzione,
avevo ricevuto il perdono giudiziario:
una decisione deleteria
perché non mi permise
di comprendere ciò che avevo fatto

Com’è stato l’impatto con il carcere?

«Non ricordo, al momento dell’ingresso, di essermi spaventato, forse anche perché a San Vittore erano già detenuti mio papà e mio fratello. Nella sezione femminile c’era mia mamma. Il lunedì mattina, durante i colloqui interni, si riuniva tutta la famiglia».

A questo punto ti chiediamo di raccontarci della tua vita famigliare, prima di San Vittore.

«Nonostante fossimo un nucleo che si può definire criminale, non eravamo disagiati. Mia nonna era laureata e mio papà era diventato, da semplice impiegato, capo cassiere alla Banca Popolare. Sebbene il lavoro fosse soddisfacente, mio padre aveva il seme del malandrino: il venerdì sottraeva dalla cassa forti cifre per giocarle ai cavalli o al casinò durante il fine settimana. Il lunedì rimetteva tutto a posto perché, di solito, vinceva».

Essendo la fortuna una dea cieca e capricciosa, il signor Ghelardini venne scoperto e licenziato. «Tuttavia non abbiamo mai avuto problemi finanziari. Nell’ambiente dei casinò mio papà aveva conosciuto gente di malaffare: contatti che gli permisero di dedicarsi al contrabbando di sigarette, al tempo un’attività fiorente. Dal punto di vista logistico era un’impresa complessa: bisognava recuperare le stecche in Svizzera, stoccarle in cantine e garage, trovare chi le vendesse, in modo capillare, sottobanco. Ricordo ancora i lunghi viaggi in macchina, con mia madre, fino a Chiasso: chi poteva sospettare di una donna accompagnata dal figlio di cinque anni?».

Ci racconti la routine domestica?

«La mia era una famiglia come tutte le altre: i figli andavano a scuola, la cena tassativamente alle 19 e la sveglia alla domenica mattina presto perché la mamma doveva fare le pulizie. Ma, naturalmente, non c’era solo quello: dal contrabbando eravamo passati alla ricettazione e mi ricordo bene la casa stipata di scatoloni di merce rubata».

Anche i soggetti che frequentavano l’abitazione erano particolari, come i componenti della celebre Banda della Comasina: «Io ero piccolo, nessuno faceva caso a me, ma io ascoltavo tutto con attenzione». La stessa curiosità che lo spingeva, poco dopo i 10 anni, a recarsi di nascosto in cantina. «C’era una valigia di cartone al cui interno c’erano dodici pistole e centinaia di proiettili: venivano prestate alle persone che passavano da noi e ne avevano bisogno. Così anch’io, saltuariamente, le prelevavo per andare a sparare, oppure per venderle. Comprare e rivendere pistole fu un modo per farmi la paghetta, ancora prima di iniziare a smerciare anfetamine, un’attività che ho svolto durante gli anni del Liceo Scientifico».

Com’è stato possibile svincolarsi da un imprinting criminale così forte?

«Il cambiamento non è avvenuto per un unico motivo, ma grazie a graduali passaggi di consapevolezza. Durante la penultima carcerazione, tra il 1999 e il 2007, a San Vittore, Telecom Italia, in collaborazione con la cooperativa Outsiders, di cui ero fondatore, aveva allestito un call center. Fu un’esperienza pionieristica di enorme successo che, per la prima volta, mi fece apprezzare il lavoro».

Nel 2007 Francesco usciva dal carcere e trovava occupazione presso una società di energie rinnovabili: in poco tempo, conquistando la fiducia e la stima dei superiori, passava da semplice impiegato a customer account.

«Era un buon periodo, avevo un bell’ufficio e stavo da dio. Purtroppo mi attendeva una forte crisi, dovuta principalmente alla separazione da mia moglie. Mentre stavo perdendo tutti i punti di riferimento, mi contattò un serbo per organizzare una rapina: inizialmente rifiutai ma poi, qualcosa legato al passato, scattò dentro di me».

«Mentre stavo perdendo tutti i punti di riferimento,
mi contattò un serbo per organizzare una rapina:
inizialmente rifiutai ma poi,
qualcosa legato al passato, scattò dentro di me»

«Il colpo andò bene ma, dopo un anno, mi vennero ad arrestare. Durante quel periodo di detenzione feci il secondo switch: mi ritrovai a convivere con una popolazione criminale molto diversa da quella che avevo conosciuto nelle precedenti detenzioni e in cui non mi riconoscevo più. Dietro le sbarre incontrai, ormai vecchi, soli e malati, i criminali che erano stati i miei idoli quando ero un ragazzo. Allora mi fermai e mi chiesi se quello fosse il futuro che attendeva anche me, soprattutto alla luce dei periodi in cui, lavorando onestamente, mi ero accorto delle mie potenzialità. In tutto questo processo di consapevolezza fu fondamentale la mia compagna Stefania che, con determinazione e costanza, mi era stata fedele e vicina nonostante le continue peregrinazioni tra le carceri del nord Italia».

Se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui, vi sveleremo come prosegue e trova la sua felice conclusione la storia di un “poco di buono”.

«Quando sono uscito, grazie alla mia compagna e ad un datore di lavoro illuminato ed accogliente, ho iniziato a lavorare in una ditta di e-commerce. Con il tempo sono diventato amico del capo, che mi ha invitato a condividere con lui l’attività di soccorritore volontario. Un’esperienza che mi ha subito conquistato, tanto da spingermi ad abbandonare la precedente occupazione per lavorare a tempo pieno per Intersos. Oggi guido le ambulanze, sono diventato istruttore: mi piace da matti, sento di aver trovato la mia strada e ogni mattina mi sveglio felice di andare a lavorare».

Francesco con la compagna Stefania: “Eravamo in paese, ero in bicicletta, ho detto a Stefania: vieni che ti porto in canna come facevamo quando eravamo ragazzini. E ci siamo fatti una foto” (foto Facebook)