strappi

N.62 settembre 2025

rubrica

Rivoluzioni “silenziose”, pietre d’angolo della nostra musica

Non sono stati i tentativi teorici a generare il cambiamento e l'evoluzione della cultura musicale. Ma strappi stilistici capaci di toccare l'anima di un'epoca

Usare la parola strappi forse è un po’ troppo, ma nella storia della musica si possono trovare qui e là momenti in cui una sterzata decisa diventa irreversibile. In realtà, ciascuno potrebbe avere le sue fisse e credere per esempio che nel campo della musica classica i Bach, Mozart, Beethoven e Brahms siano punti di svolta rivoluzionari. Un rockettaro metterebbe in fila Elvis Presley, Buddy Holly, Little Richard e Chuck Berry come protagonisti di innovazioni epocali. Un patito della riproduzione sonora preferirebbe vedere nel mezzo di diffusione i salti imperiosi verso la modernità, dai primi amplificatori, alla radio, alla musica elettronica fino all’avvento del podcasting (e magari mentre lo scriviamo già una nuova era è cominciata…).

Forse bisogna allargare lo sguardo e andare a cercare i punti di non ritorno in quei momenti che hanno creato un nuovo modo di intendere la musica. Una cosa è certa: l’unico criterio che ha deciso in un senso e non in un altro, è che quel modo nuovo di fare o intendere la musica ha trovato la sua ragione dentro l’anima, in quella “corrispondenza di amorosi sensi” musicali che fa vibrare la sensibilità interiore. Per fare un esempio, vi fu un compositore e teorico del nostro Rinascimento, Nicola Vicentino, che adottò nella sua musica un sistema di 33 suoni anziché di 12 come si usa normalmente ancora oggi.

Ebbene, tutta la scienza e la logica non sono servite a far adottare quel sistema a nessuno ad eccezione di lui stesso. Non era questione di feeling, evidentemente. Un altro esempio è quello dell’inventore della dodecafonia, Arnold Schönberg, salutato a suo tempo dal fior fiore dei critici come la rivelazione del futuro in musica; quel sistema di dodici suoni da conteggiare freddamente nel corso della composizione ha prodotto qualche modesto risultato estetico nel suo ideatore, quasi nessuno nei pochi seguaci e zero nel seguito della storia.

Gli strappi, a ben vedere, si sono avuti senza tanti proclami, ma con la forza del seme che fa crescere l’erba sul cemento armato.

Tutti più o meno conoscono il canto gregoriano, ossia quel repertorio di canti a voce sola che fra il VI e il X secolo ha costituito la grande musica della liturgia cattolica romana. Esso aggiungeva alle sacre parole tutta la carica emotiva dell’arte musicale, dal giubilo allelujatico alla meditazione lirica, dalla sottolineatura didascalica alla retorica della lettura intonata.

Non si sa bene in quale momento preciso, ma ecco che alla voce sola si sovrappone una seconda voce: è il trattato anonimo del IX secolo intitolato Musica enchiriadis che mostra come si poteva comporre o improvvisare musica mettendo una voce sopra l’altra. Una cosa da niente sembrerebbe; lo si sente fare intuitivamente anche oggi nei canti popolari. Per orecchie abituate a monodie senza accompagnamento la cosa doveva invece risultare rivoluzionaria. Proprio qui è nata l’arte ­– tutta occidentale – della polifonia di voci, degli intrecci contrappuntistici, della ricchissima varietà di espressioni corali che ha attraversato i secoli e ha incrociato un Palestrina, un Bach, un Ligeti

Attorno al Seicento ancora succede qualcosa. Fino a questo momento, la musica religiosa e profana – mottetti e madrigali­ – era scritta in linea di massima a più voci, in contrappunti o omofonie complesse. Il testo risultava spesso incomprensibile per i non addetti ai lavori; fu così che un circolo di studiosi fiorentini (La Camerata dei Bardi), pensò di aver trovato il modello di vera musica nell’antica monodia dei greci, affermando che “la poesia (il testo) è signora della musica”. In altre parole, sostenevano che la polifonia con tutti i suoi intrecci soffocava l’espressione individuale genuina. La “nuova musica” doveva essere a una voce, la melodia doveva rispecchiare il naturale sentimento, l’accompagnamento (il basso continuo) doveva essere semplice semplice.

Un’idea di dilettanti? Sicuramente. Una trovata cervellotica? Forse.

Ebbene, da qui prese le mosse l’arte – tutta occidentale – del melodramma, ossia di quella rappresentazione scenica in cui dei personaggi/eroi/protagonisti esibiscono nel canto tutta la loro individualità. Si cominciò con Monteverdi e si arrivò a Puccini

Un altro smarcamento epocale avvenne agli inizi degli anni Sessanta. Stavolta lo strappo dalla musica tradizionale fu piuttosto rumoroso e non c’è dubbio che nel giro di pochi anni la musica mutò fisionomia. Bastò un complesso dal nome ben strano, i Beatles, a incanalare l’ascolto verso nuovi orizzonti. Dove stava la novità? Questi quattro ragazzi, che neppure avevano studiato musica seriamente, scrivevano testi propri che chiunque avrebbe potuto scrivere, componevano melodie che chiunque poteva cantare, avevano uno stile il più basico possibile, suonavano strumenti in un modo che chiunque poteva imitarli, dicevano cose che chiunque capiva e in cui chiunque poteva identificarsi. In un’epoca di boom economico e demografico, di acculturazione giovanile, di massificazione e di creazione di nuovi miti, si creò una simbiosi perfetta fra musica e pubblico.

Da allora vi è stato di meglio e di più profondo sicuramente, ma non c’è dubbio che la storia della musica ha preso un’altra strada e la sta continuando tuttora alla grande…

Ancora una volta è stata questione di ricerca di espressione di sé? Di volontà di novità? Di aprire finestre? Di descrivere e descriversi nel mondo che cambia? Ma forse è l’Occidente che si è sempre evoluto così, spostando piccoli dettagli di volta in volta oppure strappando imprevedibilmente da sotto la superficie.