casa

N.17 Gennaio 2021

QUARANTENE

Noi quattro sotto un tetto

Mamma, papà e due figlie alle prese con l'isolamento: i rapporti famigliari ridefiniti da porte chiuse, musica, esperimenti culinari e amici lontani

«Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Non si tratta d’essere pessimisti ma sono il coordinatore di un’equipe che si occupa di controlli sanitari e che dall’inizio della pandemia è stata cooptata in un servizio di malattie infettive. Dunque, sapevo di correre un grosso rischio, quello che non potevo immaginare è che tutta la mia famiglia sarebbe risultata positiva al virus».
Carlo accarezza le corde della sua chitarra mentre la memoria punzecchia ricordi che sembrano echi distanti nel tempo. Sin dalla prima ondata Covid si è occupato del contact tracing, ovvero della ricerca spasmodica dei contatti e delle disposizioni per gli isolamenti. La memoria si srotola come una vecchia bobina dalla quale emergono frame, alcuni netti, perfettamente aderenti al reale, altri dai contorni frastagliati e incerti.
«Credo d’averlo capirlo sin dal primo istante che non si trattava di una normale influenza, per questo ho chiesto a mia moglie e alle mie figlie di isolarci immediatamente. Ognuno nelle proprie stanze».
Alza le spalle, Carlo, quasi a volersi scrollare di dosso paure e fragilità, distillato purissimo di un tempo tristemente immobile. «Casa per me ha sempre rappresentato la sicurezza. Come una saracinesca che si abbassa, una barriera netta tra dentro e fuori. Oltre la porta che chiudevo alle mie spalle, restavano scocciature e problemi. Accettare che nemmeno qui fossimo più al sicuro è stato un colpo duro, di quelli assestati per bene, che fai fatica ad accettare».
Quaranta giorni. Quaranta giorni in una stanza a celebrare il ricordo di rituali e abitudini. Pensieri confusi in cerca di una direzione.
Quaranta giorni per imparare a dare un volto alla paura, ad escogitare un modo per farsela amica e trovare dentro se stessi una boa per rimanere a galla anche quando le onde sono alte e l’acqua sale fino alla gola. Quaranta giorni per riscoprirsi vulnerabili, piangere chi se n’è andato all’improvviso e fare i conti con il vuoto che scava dentro come una voragine. Niente televisione per Carlo, solo libri, computer, parole crociate. E musica.
«Ho ridisegnato spazi e dato forma a nuovi pensieri ascoltando alcune vecchie canzoni di Guccini» dice. «“Lettera” non l’ho scelta a caso come colonna sonora: è la metafora perfetta di una vita che prosegue e si evolve sempre anche quando tutto intorno appare immobile».

«Non ho un buon rapporto con la solitudine
Non posso negarlo: certi giorni,
questa casa mi è parsa una prigione»

BEATRICE, 24 ANNI

Se l’isolamento per Lorenza, la moglie di Carlo, e la figlia più piccola Cecilia di 17 anni, è durato poco più di due settimane ed è stato costellato di esperimenti culinari (rigorosamente falliti) e un allenamento quotidiano di due ore all’interno del giardino di casa per non perdere l’attitudine al movimento, Beatrice, la figlia più grande, ha sperimentato la fatica di riuscire a danzare nel buio per quaranta giorni.
«Non ho un buon rapporto con la solitudine, non sono abituata a restare in casa, a convivere con i miei genitori così a lungo. Non posso negarlo, certi giorni, questa casa, mi è parsa proprio una prigione. Ma la reclusione, l’isolamento mi ha insegnato a fare i conti con il dolore e con la fatica che si fa ad attraversarlo» sorride. «Ho imparato a tessere fili invisibili in grado di trasportarmi altrove. Mi mancava tutto, era come se fino a quel momento mi fossi illusa di percorrere una lunga salita che mi avrebbe condotta al cielo, e poi, una volta giunta in cima a quella salita, il cielo fosse sparito. Era alienante. Eppure ho capito che per camminare non servono necessariamente i piedi. E che la parte più difficile di ogni viaggio sta sempre nel compiere il primo passo. Tutto il resto arriva, se lo fai arrivare».

Felix si accomoda nel cuscino accanto al divano, dormicchia, un occhio aperto e uno chiuso, in attesa della prossima coccola. Si gode la quiete della casa, il tepore del camino, il sottofondo di parole che non può capire. O forse sì.
E dunque, davvero “casa” è molto più di quattro muri tirati in piedi e ben intonacati. Casa sono i saluti che anticipano ogni partenza, le istantanee appese alla lavagnetta accanto al frigo. Casa, è la porta che si riapre alla fine di un viaggio, la valigia in sosta nell’armadio, il soffitto che osservi ogni notte prima di addormentarti, testimone silenzioso di quelle lacrime che sono tue e tue soltanto. Casa sono i calzini spaiati che ritrovi sotto al letto, il profumo del caffè che accompagna ogni risveglio.
Casa siamo noi, e, con noi, chi ha scelto di condividere un pezzo del viaggio. Casa è chi t’insegna che ciò che manca, infondo, lo si trova camminando.