frontiere
N.12 Giugno 2020
Tra mito e… vignette,
parola di frontaliere
Vivere in Italia, lavorare in Svizzera: diario semiserio di una "azzurra" alla conquista del Ticino
Ciascuno di noi, se ci pensa, lo ha avuto: il lontano cugino che molla tutto per tentare la fortuna in Svizzera; lo zio trasferitosi a Zurigo con la valigetta di cartone, il fratello partito per uno stage a Lugano e mai più rientrato perché i soldi, là, crescono sugli alberi.
Storie dal sapore di leggenda, come quella mitica del Cimino, contrabbandiere che dal lago di Como trafugava sigarette da una parte all’altra della frontiera italo-elvetica sfidando Guardia di finanza e guardie di confine non di rado tuffandosi nelle acque lacustri per sfuggire ai controlli (e tanti saluti al prezioso carico).
Ebbene, venne un giorno in cui toccò a me. Una telefonata per un lavoro in Ticino, il cuore a mille, un sì emozionato e dopo una settimana – armi e bagagli – mi trovo in coda alla Dogana di Chiasso-Brogeda.
«Ue’, azzurra, apri il baule». La voce perentoria del doganiere svizzero mi spaventa. Scendo, apro, controlla e mi fa un cenno. Sto per ripartire ma l’uomo mi stoppa con la mano. «E la vignetta?». Qualche secondo nella testa ma no, non riesco a capire.
Ho dimenticato qualche numero di Topolino dei nipoti in macchina? Qualche amico per goliardia ha attaccato fumetti irriverenti sugli svizzeri ai miei finestrini? Panico. Tremo.
«Scusi, cosa intende per vignetta?». Il doganiere sorride, un sorriso largo tutta la frontiera tra comasco e Canton Ticino. «Prima volta da frontaliera eh?». Abbozzo una risposta e intanto scopro che la “vignetta”, alla modica cifra di 40 franchi, è l’adesivo annuale autostradale svizzero da attaccare sul parabrezza. «Con quello vai ovunque, niente Telepass o cose così», mi rassicurano. Senza dirmi che è una roba che manco il vinavil. Ancora oggi litigo con mio marito perché sul vetro, lato guidatore, ne contiamo nove. Di tutti i colori diversi. Impossibili da grattar via. Chi si trova a fare il frontaliere tra Italia e Ticino impara presto due cose: che in Svizzera non esistono quattro Cantoni (sono 26) e che le lingue parlate sono tedesco, francese, romancio e italiano (in Ticino). Solo che la nostra lingua subisce a quelle latitudini numerose “rivisitazioni”.
Il primo giorno di lavoro, in redazione, il caporedattore mi chiede se ho un numero svizzero. Non lo avevo, mi muovevo all’epoca con il mio caro vecchio nokia e la mia scheda sim dei tempi del liceo. «Allora, senti, fai così. Comprati un natel nuovo, se vai alla Migros li trovi in azione. Per andarci prendi l’autopostale. Poi quando torni andiamo a farci una specialina».
Lo guardo stralunata. Ride, anche lui con un sorriso che copre la distanza tra Lugano e Cremona. «Non c’hai capito niente vero?». Arrossisco e comincio a pensare che aver studiato a memoria tutte le tappe del federalismo svizzero o i nomi dei politici più in vista non sarà d’aiuto. Mai intuizione fu più vera. Fu così che il buon Gregorio mi regalò allora lo “Svizionario”, un cadeux di benvenuto per iniziare ad ambientarmi. Scoprii così in poco tempo che il natel altro non è che il cellulare (dal nome della vecchia telefonia mobile svizzera), che la Migros è il supermercato ticinese di riferimento, che “in azione” significa “in sconto” e che l’autopostale non è altro che la nostra “radiale”. E la specialina? Niente paura, non mi aveva offerto una partita di droga, ma una birretta da 33 cl che bevemmo prontamente la sera a fine turno. La settimana dopo ricambiai la cortesia portando un bel salame cremonese con aglio e torrone come se piovesse.
Nei miei anni di frontalierato – trascorsi per gran parte come residente a Lugano ma sempre col cuore (e il weekend) piantato a Cremona- ho imparato che le rolladen da abbassare alla sera sono le tapparelle, che mentre noi ci ammazziamo di Coca-cola oltre confine il massimo del godimento è la Rivella (bevanda che ritengo intrangugiabile ancora oggi ma per cui i miei amici elvetici smattano), che in autostrada se c’è buio è meglio usare i bilux (gli abbaglianti), che i piatti forti nei Crotti sono il rösti e la fondue e che lo sport per eccellenza rimane l’hockey (mai schierarsi con una delle squadre di riferimento – Lugano o Ambrì – perché si rischia il linciaggio).
Ho sperimentato quanta fatica possano costare le ore di coda fermi in dogana per controlli quando al lavoro il capo ti aspetta imprecando, che i limiti stradali lì non sono un optional (se sgarri di 5 km/h ti ritirano auto e patente) e non ho mai riso così tanto come guardando le puntate di “Frontaliers”, serie tv elvetica prodotta dalla RSI (la “RAI” in salsa elvetica) che racconta con ironia e garbo le vicissitudini dei lavoratori come me.
Certo, ho anche imparato che qualcuno, malignamente, continua a chiamare noi italiani maja ramina (mangia ramina) o badolla: la ramina è la rete che storicamente circoscrive il confine tra comasco e Ticino e badolla sta per “gente che lavora con il badile, sottopagata”.
Sono pochi, però. La verità è che ticinesi e frontalieri si vogliono bene. Sanno di condividere la lingua più bella del pianeta, spesso le stesse radici (moltissimi ticinesi sono di origine italiana) e alcuni dei panorami più belli al mondo.
Una volta condividevano pure il segreto bancario, ma i tempi sono cambiati.
Negli ultimi tempi non sono mancati episodi di solidarietà unica, soprattutto durante il lockdown. Medici italiani in prima fila nell’emergenza negli ospedali del Cantone e ticinesi che si sono adoperati per ospitare tutto il personale medico e infermieristico italiano proveniente dal comasco o dal varesotto. Segno che le frontiere, a volte, sono solo muri che abbiamo nella testa. L’unica cosa che può dividerci davvero sono le finali dei Mondiali o degli Europei di calcio. Ma questa è tutta un’altra storia…
Nulla che una specialina in compagnia non possa risolvere.