parole

N.24 Ottobre 2021

SPORT

Dall’abatino di Brera ai monosillabi di Haaland: così il calcio ha polverizzato la parola

Nell'età del dominio dell'immagine società sportive e star del campo hanno cavalcato la rivoluzione digitale E a chi racconta i gol non resta che... gridare

«C’è un messaggio particolare che vorresti mandare ai tuoi fans?»
«Sì»
«Quale messaggio?»
«Ai miei fans»

Dortmund. Triplice fischio. Prato del Westfalenstadion.
Reduce dall’ennesima scorpacciata di gol, Erling Braut Haaland sembra un enorme animale sazio, con la preda ormai in pancia e impaziente di tornarsene nella foresta, mentre risponde alle interviste di routine del post-partita. Emette suoni monosillabici, ride sotto i baffi, e nel “non dire” (che sta provando a tagliare corto, che vorrebbe andarsene subito a far festa con i compagni, che insomma tutto questo non gli interessa) serve sul piatto del povero bordocampista poche pillole fredde, di una banalità che non lascia scampo.

In realtà, quello che le parole di Haaland non dicono si scopre interpretandone il linguaggio del corpo. Il ghigno così, un po’ irridente e un po’ seccato, dell’attaccante del Borussia Dortmund suggerisce al giornalista con il microfono che non è il caso di prolungare troppo la farsa, e che nel caso l’inviato volesse insistere con le domande idiote lui potrebbe fornire altrettante risposte ancor più evasive e insensate. Il centravanti norvegese, classe 2000, è in sostanza un nativo digitale diventato adulto con i social che si sta prendendo gioco di un boomer. Ancora peggio, di un boomer con un microfono del quale non ha più bisogno. Ma il siparietto nasconde altro. In tale circostanza Haaland non è solo maleducato con un professionista intento a portare a termine il proprio lavoro: è perfettamente consapevole che, qualora intendesse davvero rivolgere «un messaggio ai fans», potrebbe spedirlo in autonomia standosene seduto nello spogliatoio. Oppure dal divano di casa, senza la necessità di affidarlo ad un intermediario, saltando una mediazione oggi superflua che rischierebbe solo di distorcerne il significato finale.

Haaland e… le interviste

YouTube è pieno di collezioni delle migliori interviste di Haaland, tutte piuttosto divertenti perché farcite di dialoghi lunari, di silenzi improvvisi, di risposte così secche o spiazzanti da generare imbarazzo. Il distacco con il quale un giovane atleta tra i più celebri del mondo si relaziona con i media rivela però qualcosa di più importante sull’evoluzione del racconto del calcio nel XXI secolo. Rivela la marginalizzazione inevitabile dei media tradizionali, con le loro lunghe colonne, e la progressiva polverizzazione della parola. Rivela la riduzione definitiva della narrazione all’istantanea immediata, al contenuto da post o da stories.

Pensate al parallelo con il campo: Haaland che corre come un bisonte in discesa, carica il sinistro e calcia come se non si accontentasse di segnare, ma volesse demolire la porta, forse anche la curva dietro, senza preoccuparsi troppo della forma, e poi se ne torna indifferente a centrocampo. Non è forse la stessa modalità d’espressione – arrogante, minimal e diretta – esibita dal caro Erling nelle interviste?

Tutto questo ha avuto inizio quando i mezzi di comunicazione del Novecento (giornali, televisioni, radio), terremotati dalla rivoluzione digitale, hanno perso il monopolio sul racconto e quindi sulle parole del calcio. Come spiega Baricco nell’illuminante The Game, le nuove piattaforme interconnesse hanno disarmato le élite di un tempo, nel nostro caso la stampa, portando direttamente i contenuti agli utenti finali. Le società sportive e i calciatori hanno preso il controllo della comunicazione, hanno inaugurato le loro pagine ufficiali, si sono aperti i loro account, e hanno deciso di parlare direttamente al pubblico aggirando il filtro critico dei media. Così il ruolo dei giornalisti ha finito per perdere centralità e autorevolezza. Diversamente non si spiegherebbe per quale ragione Pep Guardiola, a pochi giorni dalla finale di Champions League, abbia deciso di rilasciare l’unica intervista esclusiva alla Bobo Tv, anziché al Guardian o Sky Sport.

È un nativo digitale
e si sta prendendo gioco
di un boomer con un microfono
di cui lui non ha più alcun bisogno

É in questo nuovo scenario fluido che i calciatori hanno scolpito il loro linguaggio neomercantile, tutto appiattito sulla retorica dell’auto-motivazione. L’umiltà, il mito dei «tre punti e testa alla prossima partita», la scappatoia sempre comoda dei ringraziamenti ruffiani al pubblico, l’ostentazione del riposo e della serenità in vista del grande appuntamento, con tante belle foto fresche di scatto sempre a corredo pronte all’invasione dei cuoricini. Tre o quattro parole scontate, qualche emoticon colorata a rimpinguare il testo e via, il post scorre in bacheca che è un piacere (e soprattutto, gli sponsor aprono il portafoglio). Se invece si tratta di lanciare stilettate contro i fantasmi della critica, o denunciare qualcuno, ecco che la lingua dei nostri eroi precipita nel peggior burocratese da verbale del brigadiere. Nonostante questo, i tifosi sembrano apprezzare.

Un decennio fa, quando Cristiano Ronaldo non aveva nemmeno una pagina Facebook, i galoppini di Zuckerberg contattarono l’entourage del portoghese: «Hey, il vostro assistito potrebbe fare sfracelli sulla nostra piattaforma: secondo le nostre proiezioni potrebbe raggiungere velocemente 10 milioni di followers». E gli agenti, increduli: «Ma è impossibile, è la popolazione del Portogallo!». Nel giro di pochi anni Cristiano è diventato l’essere umano in assoluto più seguito sui social media. I suoi post vengono visti quotidianamente da mezzo miliardo di persone. 360 milioni solo su Instagram dove, per fare un parallelo, il New York Times conta “solo” 13 milioni di followers. Numeri alla mano, non è blasfemo affermare che Cristiano Ronaldo venga letto nel mondo più del Times. Chi è il vero media, dunque?

Non è tutto però. Perché la marginalizzazione dei giornali e la disintermediazione hanno avuto un secondo effetto collaterale. I grandi club hanno portato la comunicazione d’impresa negli stadi, aziendalizzando il racconto del gioco. Management, board, brandizzazione, strutture societarie, progetto triennale, investimenti, liquidità, sono parole che hanno invaso il vocabolario del pallone negli ultimi anni condizionando anche l’approccio dei tifosi. A fine anni Novanta, quando le Sette Sorelle si abbuffavano di campioni strapagati, nessun tifoso si sarebbe mai sognato di affermare: «Prendere Ronaldo? Naaah… Peserebbe troppo sul bilancio, pensate agli ammortamenti. Preferisco un bel progetto sostenibile basato sul player trading per moltiplicare i ricavi: magari non vinciamo subito, ma così rafforziamo il brand!». Nel 2021 è invece la realtà, spesso fotografata anche dai più banali commenti da bar trasferiti nel foro virtuale dei social. Ad ogni epoca, il suo modo di parlare di calcio. E implicitamente, anche di immaginarlo.

E pensare che senza i fiumi di parole d’inchiostro versate sui giornali il calcio non sarebbe quello che è oggi. Fin dall’Inghilterra del tardo Ottocento, culla del professionismo, i giornali hanno alimentato la passione e trasformato il pallone in un vasto fenomeno di massa. Le edizioni serali delle pagine sportive (i cosiddetti Football Specials) arrivavano direttamente nei pub adiacenti ai campi di quartiere o di parrocchia, dove il pubblico inebriato dall’alcool si accavallava impaziente intorno al giornale per sfogliare i fitti resoconti delle altre gare pomeridiane. Milioni di persone iniziarono ad avvicinarsi al calcio non attraverso la partecipazione attiva, ma grazie alla lettura. Nel caso del ciclismo il legame fu ancora più stretto: alle testate giornalistiche si deve addirittura l’invenzione e l’organizzazione delle principali corse a tappe, come il Tour de Francia o il Giro d’Italia.

Il monopolio degli imperi di carta e successivamente della radio sul racconto dello sport è durato per diversi decenni. Una fase lunga quasi un secolo, in cui la parola ha regnato sovrana perché il lettore dipendeva dall’articolo o dalla radiocronaca del giornalista. Senza televisioni, il calcio doveva passare dalle parole dei giornalisti per arrivare al grande pubblico. I cronisti erano l’unica mediazione possibile tra l’evento e i tifosi. Gianni Brera scriveva divinamente attingendo da una cultura classica sconfinata, ma soprattutto aveva la possibilità di viaggiare e vedere dal vivo partite e squadre che in pochissimi conoscevano per esperienza diretta. Da una parte, quindi, la cronaca aveva la funzione primaria di rendere vive le azioni nell’immaginario del lettore, ed erano articoli ad altissima densità di parole, di fatti descritti con dovizia di particolari. Allo stesso tempo, lo status di testimoni privilegiati spingeva i giornalisti a ricamare sulla cronaca con un tono epico, accompagnato da ricche aggettivazioni e opinioni forti che godevano di fortissima considerazione. Brera, con i suoi neologismi, arrivò a cucire addosso al calcio italiano una lingua nuova, immaginifica, poi esportata anche all’estero, che strutturò una precisa forma di pensiero tattico e di ideologia difensivista. Il giornalista era letto, indispensabile e influente. Sì, possiamo dirlo: l’influencer della sua epoca.

Oggi Haaland è strafottente con i cronisti e Cristiano Ronaldo butta il microfono di un reporter nel laghetto (è successo davvero!) perché possono permetterselo. Al contrario Gianni Rivera, quando nei pezzi breriani del lunedì veniva etichettato come l’Abatino, ovvero un fuscellino talentuoso ma un po’ fragile, doveva incassare e chinare la testa. Diversi erano i rapporti di forza. Il peso della grande firma prevaleva sulla popolarità dei calciatori. Di recente, sul Corriere, Mario Sconcerti ha ammesso di essersi spinto anche oltre: volendo trovare una talpa nello spogliatoio del Milan, bersagliava un giocatore mettendo voti insufficienti in pagella per poi ricattarlo affinché gli rivelasse notizie esclusive dall’interno. Non c’era pericolo di essere censurati o peggio interdetti dalla tribuna stampa. Era il calcio ad avere bisogno dei giornali, e delle loro parole, non viceversa.

…un’epoca in cui solo urlando
la parola può sopravvivere
al trionfo della cultura visuale

Il monopolio della parola scritta si è dissolto con l’avvento della televisione, che ha finalmente consegnato facoltà di visione allo spettatore. Nella telecronaca la parola è diventata didascalica, ha dovuto mettersi in secondo piano rispetto alla prepotenza dell’immagine. Ma soprattutto, con gli anni ’90, è giunto l’uragano delle pay tv: diventando un prodotto televisivo da vendere, il calcio si è prestato alla necessità di alzare i decibel del racconto, di enfatizzare, di annunciare in prima serata che «la partita promette spettacolo». E che laddove Bruno Pizzul elogiava con pacata sobrietà un’azione ben confezionata («tutto molto bello»), ora qualsiasi momento è «pazzesco», «clamoroso» o «imperdibile».
Il Mondiale 2006 è infine il momento spartiacque. Lo stile delle pay tv, inizialmente apprezzato perché più fresco e dinamico rispetto a quello compassato della Rai, deborda nella ricerca ossessiva della frase ad effetto. Fabio Caressa alza vertiginosamente i toni e il ritmo del racconto in diretta, piange, impreca quando Zambrotta centra il palo al Westfalenstadion, lancia i tormentoni che accompagnano ancora oggi i ricordi del trionfo dell’Italia. Segna però la fine della telecronaca tradizionale, che si limita ad accompagnare l’immagine. È l’alba dello stile aggressivo, molto personalizzato, che si sovrappone alla partita. Simbolo di un’epoca in cui solo urlando la parola può sopravvivere al trionfo della cultura visuale, alla sua frammentazione tra mille piattaforme, social, chat e format differenti.
Insomma, il racconto del calcio in lingua italiana, come avrete intuito, non se la passa benissimo. La Treccani ha addirittura denunciato una minacciosa colonizzazione da parte dello spagnolo, che avrà anche imposto la propria legge un po’ ovunque dal tiqui taka in avanti, ma alla nostra ricca lingua non dovrebbe insegnare proprio nulla. Invece da tempo diciamo triplete anziché tripletta, manita anziché cinquina, remuntada anziché rimonta, falso nueve anziché falso centravanti o “falso nove”.

Questo forse racconta che il calcio italiano non è più influente come ai tempi di Brera. E che avanti così, quando torneremo dal calcetto del giovedì sera, e le nostre mogli chiederanno un resoconto, risponderemo come Erling Braut Haaland.
«Com’è andata la partita, amore?».
«Sì».
Tanto poi c’è Instagram…