mattoni

N.55

società

Andrea Staid: costruiamo un altro volto alle nostre città

Lo sguardo diretto e radicale dell'antropologo Andrea Staid sul presente e il futuro delle nostre città: «Non sappiamo più coltivare né riparare biciclette e ci chiudiamo in appartamento. Ma c'è una riscoperta di nuovi stili di vita: più lenti, con meno merce e più cura delle relazioni comunitarie»

Quante volte ho sentito parlar di campagna alla gente che vive in città

e che loda la vita bucolica però in campagna, poi, mica ci sta

canta con la consueta ironia Brunori Sas nel brano La ghigliottina.

Andrea ascolta e sorride. Poi alza lo sguardo e risponde alla provocazione del cantautore: «È vero, nella mitologia cittadina ciò che è fuori dal perimetro urbano è bello perché, si dice, la natura dona pace in quanto c’è silenzio. Ma si tratta di un errore di comprensione del reale: è vero, c’è il silenzio antropico, ma in un bosco, se sei in grado di attivare una ecologia dell’ascolto, puoi udire mille suoni».

Andrea, che di cognome fa Staid, e nella vita si divide tra docenze di antropologia culturale, ricerca sul campo e scrittura di interessanti libri, riprende il discorso: «Quello che dice Brunori è reale, ma è anche vero che per tanti giovani, e altrettanti quarantenni, la città non è più l’unica scelta di vita. Sono persone che investono tempo ed energie in altri contesti, per esempio, tornando a vivere in paesini disabitati o riunendosi in comunità che si dedicano alla coltivazione della terra. Non sono figli di contadini, ma individui che decidono di essere “disertori della crescita” perché non accettano lo stile di vita della città, abbandonando usi e costumi dell’Occidente. Le realtà di questo tipo sono numerose, per esempio “genuino clandestino”, il “bioregionalismo” o l’associazione A.R.I.A. che promuove l’autocostruzione consapevole. C’è una riscoperta di nuovi stili di vita: più lenti, con meno merce e più cura delle relazioni comunitarie».

«Sono persone che investono tempo ed energie in altri contesti, per esempio, tornando a vivere in paesini disabitati o riunendosi in comunità che si dedicano alla coltivazione della terra. Non sono figli di contadini, ma individui che decidono di essere “disertori della crescita” perché non accettano lo stile di vita della città, abbandonando usi e costumi dell’Occidente»

Alla luce dei numerosi scritti di Staid dedicati al tema dell’abitare, tra cui segnaliamo La casa vivente e Abitare illegale, chiediamo ad Andrea un’opinione sul fenomeno delle “case vacanze”, appartamenti arredati, gestiti in forma imprenditoriale per l’affitto ai turisti, situati prevalentemente nel centro città. Una forma di investimento in piena fase di espansione anche a Cremona, dove l’antropologo negli scorsi mesi è stato ospite della presentazione di Giovani in centro, il progetto di rigenerazione urbana per il comparto di via Radaelli e del Vecchio ospedale nella ex chiesa di San Francesco.

«Le “case vacanze” sono un problema strettamente legato al significato della casa. Ci si può chiedere: che male c’è se mettiamo a rendita uno o più appartamenti? Ma se tutti facessero questa scelta, finiremmo per svuotare la trama sociale della città, a partire dai centri storici. Nel qui e ora affitto e ricevo una rendita, ma come sarà il territorio in cui vivranno un domani i miei figli? La città sarà sempre più attraversata, in maniera rapida e distratta, dal turismo di massa; verranno man mano a mancare le reti che intessevano la trama della città, come i negozi e le botteghe degli artigiani. È sufficiente osservare il centro storico di Venezia o di Firenze: sono una tristezza, le strade che erano un brulichio di vita fatta di commercio, politica, spettacoli, adesso sono invase solo da turisti che cercano una calamita da attaccare al frigo. Si assiste al paradosso che gli abitanti non possono permettersi una casa da affittare».

«È sufficiente osservare il centro storico di Venezia o di Firenze: sono una tristezza, le strade che erano un brulichio di vita fatta di commercio, politica, spettacoli, adesso sono invase solo da turisti che cercano una calamita da attaccare al frigo»

Un quadro sconfortante quanto realistico che ci spinge a chiedere quali possano essere le soluzioni. «Le amministrazioni devono attivarsi, esistono esempi virtuosi di tentativi di invertire questa tendenza a Barcellona, New York, Vienna. Bisogna anche chiedersi se si può sviluppare un altro tipo di turismo, alternativo a quello predatorio che, è stato dimostrato, porta la ricchezza nelle mani di pochi non realizzando una vera distribuzione sociale del ricavato».

Chiediamo provocatoriamente a Staid se ritiene che sia un problema se la maggior parte delle persone, pur abitando in case di muratura, non abbia idea di come si possa, concretamente, “tirare su” una parete. «Sono convinto che, per controllare meglio le persone, le si debba rendere incapaci di fare: per questo è necessario ricominciare ad essere artigiani; adesso non sappiamo più fare nulla, se in casa salta la corrente elettrica siamo rovinati. Il lavoro iper specializzato è un problema: certamente non posso essere un cardiochirurgo, ma posso pitturarmi la casa o sistemare la bicicletta andando in una ciclofficina dove mi daranno qualche indicazione tecnica. Non sappiamo più coltivare il nostro cibo, non abbiamo idea di quello che stiamo mangiando. Conosciamo quanti anni vive una vacca? Sappiamo cosa mangia una gallina? Porto l’esempio di cosa mangiamo perché siamo sempre più dissociati dal fare e dal comprendere ciò che ci circonda».

Penso che gli architetti dovrebbero attuare una progettazione partecipata in cui lo spazio esterno è considerato parte della casa. Nessuno trascorre del tempo in strada se non i migranti che vivono ancora la dimensione della piazza; noi abbiamo paura di fare comunità, siamo rinchiusi nei nostri appartamenti.

Ascoltare Andrea mentre parla è davvero avvincente: vorremmo porgli ancora molte domande e aver ancora più tempo per le sue risposte. Ma abbiamo spazio solo per un’ultima questione prima di salutarci. Cosa intendi quando scrivi che, nella progettazione delle case, “bisogna aumentare negli interni la presenza dell’esterno”?

«È una convinzione che nasce dalle mie ricerche sul campo; in molte comunità, dai rom alle popolazioni del Sudest asiatico, la separazione tra “casa dentro” e “casa fuori” non c’è. Penso che gli architetti dovrebbero attuare una progettazione partecipata in cui lo spazio esterno è considerato parte della casa. Nessuno trascorre del tempo in strada se non i migranti che vivono ancora la dimensione della piazza; noi abbiamo paura di fare comunità, siamo rinchiusi nei nostri appartamenti. “Esterno” è anche prendersi cura di ciò che ci appartiene come bene comune, per esempio, bisogna smettere di pensare le aree verdi come il prato all’inglese, ma viverle anche come orti urbani, stagni di recupero dell’acqua piovana, luoghi dove svolgere apicultura urbana. È necessario cambiare il volto alla città a partire da un’idea di convivenza con gli altri esseri viventi come gli alberi e gli insetti».