legami
N.56 gennaio 2025
I tifosi e i loro campioni: storia di passione che cambia con le epoche, ma non finisce
Il dualismo globale Messi-Ronaldo ha aperto una nuova era nella storia del tifo calcistico: dagli aedi col megafono di regime dei tempi di Meazza, Puskas e Varela ai calciatori-brand che la comunicazione digitale rende più popolari e amati dello stesso club che li ingaggia. Poi, ogni quattro anni, torna la Coppa del Mondo...
Il mio amico Eric, film del 2009 diretto da Ken Loach, è il racconto di un’amicizia immaginaria: quella tra il tifoso Eric, fragile postino di mezza età, ed il celeberrimo Éric Cantona, suo idolo del Manchester United. Eric (il postino) è espressione di quell’Inghilterra decadente – povera, bianca, socialmente frustrata – che ha votato per la Brexit. Cantona appare all’improvviso, quasi come un fantasma, ed Eric trova nella proiezione ideale del suo campione preferito un motivatore, un interlocutore carismatico in grado di aiutarlo a risolvere i suoi problemi.
La storia, raccontata con toni ironici e agrodolci, ha il merito di esplorare la dimensione più intima del legame emotivo capace di crearsi, talvolta, tra i tifosi e i loro campioni del cuore. Negli ultimi cent’anni, questo rapporto d’amore indiretto e misterioso ha attraversato epoche, seguito i cambiamenti della società e dei media. Provare a ricostruirlo è un po’ riannodare il filo e rivivere, tutto d’un fiato, la storia del calcio attraverso tra distinte fasi storiche. Dai ritagli di giornale ai cuoricini di apprezzamento su Instagram, passando per le figurine e i poster nelle camerette.
1. La nascita di un idolo nazionale: il campione come simbolo dello Stato
Nella prima parte del Novecento, appena conclusa l’età dei pionieri, il calcio è ancora un fenomeno pretelevisivo. Il mito del campione viene quindi diffuso dalla stampa e dalle radio, spesso asservite a regimi che trovano nello sport un megafono per annunciare le loro ambizioni al resto del mondo. In questa fase storica le prodezze del campione vengono lette o ascoltate, ma viste di rado. Il racconto è quindi filtrato dalla necessità di costruire nuove icone popolari, capaci di rafforzare i sentimenti di orgoglio e unità nazionale. Da Giuseppe Meazza a Pelé, il campione viene investito della missione di ambasciatore, accolto dai tifosi nelle stazioni ferroviarie con fazzoletti sventolanti al rientro dalle trasferte vittoriose.
Il racconto è quindi filtrato dalla necessità di costruire nuove icone popolari, capaci di rafforzare i sentimenti di orgoglio e unità nazionale
Succede in occasione dei grandi successi in Coppa del Mondo, nelle tournée internazionali o nelle amichevoli di prestigio. Proprio Meazza, che guida gli Azzurri nei trionfi mondiali del 1934 e del 1938 – abilmente cavalcati dalla propaganda fascista – è il campione degli italiani prima ancora che l’idolo di una singola tifoseria. In carriera veste a fasi alterne le maglie di Inter, Milan e Juventus, ma è con la maglia della Nazionale che costruisce la sua popolarità. Detto Il Balilla perché adolescente nel Ventennio, Meazza trascina gli Azzurri nella tremenda Battaglia di Highbury: la sconfitta subìta dalla Nazionale di Vittorio Pozzo, in inferiorità numerica, sul campo dei “maestri inglesi”, che la stampa fascista convertì nell’esaltazione dello spirito guerriero italico al cospetto della Perfida Albione.
Allo stesso modo Ferenc Puskas, leader della fantastica Ungheria e dell’Honved, club-manifesto del regime negli anni Cinquanta, diventa simbolo di un socialismo virtuoso. L’idolo del blocco orientale, che pianta bandierine vincenti nel cuore di un Occidente avvelenato dal capitalismo. Una narrazione destinata a tramontare, di colpo, nell’autunno del 1956 con la dura repressione delle insurrezioni popolari di Budapest, la discesa in strada dei carrarmati sovietici e la fuga dei campioni dell’Aranycsapat, scappati in Italia, Spagna o Francia alla ricerca di contratti e migliori condizioni di vita.
2. La fedeltà dei “one-club-men”: il campione come icona urbana
La seconda fase abbraccia il secondo Novecento, dagli anni Sessanta fino a scollinare nel primo spicchio del Duemila: è l’era dei “one-club-men” e dei tifosi ultra-fidelizzati a campioni che portano i colori della squadra del cuore cuciti sulla pelle. Da Giacinto Facchetti a Javier Zanetti passando per Paolo Maldini, Franco Baresi, Alex Del Piero, Francesco Totti, Steven Gerrard, Ryan Giggs, e potremmo proseguire per decine di righe.
Se i grandi club del calcio europeo vanno a rappresentare i valori e le identità delle città maggiormente cresciute nel boom demografico e industriale del Dopoguerra (Milano, Torino, Manchestaer, Barcellona, Madrid, Monaco di Baviera), i loro idoli diventano simboli di popoli e legano indissolubilmente la loro carriera ai colori di una sola società. Il tifoso, spesso un lavoratore inurbato che ha trovato nel tifo un elemento identitario imprescindibile, sostiene la squadra e, per osmosi, il suo giocatore più rappresentativo. Lo stesso calciatore, in questa fase storica, è figlio della cultura urbana e del tessuto sociale della città per la quale scende in campo.
Lo stesso calciatore, in questa fase storica, è figlio della cultura urbana e del tessuto sociale della città per la quale scende in campo
I grandi campioni diventano così architetti e portabandiera di società che scrivono la storia di un’epoca nella quale le competizioni per club (a partire dalla Coppa dei Campioni, poi Uefa Champions League) superano per frequenza e intensità i tornei riservati alle Nazionali.
Il Real Madrid moderno nasce con Alfredo Di Stefano, l’Ajax con Johan Cruyff, il Manchester United con Bobby Charlton e il Bayern con Franz Beckenbauer. Ogni club, ancora profondamente radicato nel territorio, estraeva dalla presenza fisica dei tifosi – dunque dal botteghino – le proprie risorse vitali. E in questa divisione molto novecentesca, per confini culturali e geografici rigidi, a filtrare il legame tra il sostenitore e il campione era l’amore per la maglia. Difficilmente, negli anni Ottanta, un giovane tifoso tedesco avrebbe indossato la camiseta numero 10 di Diego Armando Maradona.
Proprio il caso del legame tra Maradona e Napoli è emblematico di questa stagione. Argentino di sangue ma partenopeo d’adozione, Diego guida gli azzurri attraverso un ciclo di successi che profumano di riscatto sociale. Autentico capopopolo per una regione a lungo umiliata dal confronto con le metropoli del Nord industriale, Maradona a Napoli è accolto, protetto e infine elevato allo stato di nuovo Masaniello, il giovane che nel Seicento guidò la sollevazione popolare contro il governo spagnolo. Nessun luogo al mondo, oggi, trasuda della stessa passione quasi mistica, disseminata tra vicoli e murales, per un solo campione capace interpretare i sentimenti di una comunità.
L’età delle bandiere si estende fino alla rivoluzione della Bosman, la legge europea che nel 1995 globalizza il mercato dei calciatori rompendo vincoli di territorialità, con una struggente appendice dedicata all’addio delle ultime bandiere. Quando Alex Del Piero o Francesco Totti salutano per l’ultima volta i loro stadi, le lacrime che inondano i volti dei tifosi juventini o romanisti non sgorgano solo dal dispiacere per la fine di un’epoca sportiva. Con l’addio di Del Piero e Totti, si chiude un capitolo della loro vita segnato da quell’abitudine intima che tutti, un po’, da calciofili, abbiamo coltivato. Ovvero, quella di collegare gli eventi della vita alle immagini dei gol e delle prodezze dei nostri idoli. Totti, per centinaia di migliaia di romanisti, non era solo Er Cucchiaio o lo Scudetto del 2001. Era quella serata indimenticabile in un bar di Trastevere, il primo bacio nei corridoi del liceo, la vacanza in moto con gli amici e l’ansia del primo giorno in ufficio.
Piccola licenza dell’autore: lo sport è un pezzo di vita, di di cultura condivisa, e chi svilisce o, peggio, banalizza questo sentimento è un tapino.
3. Campione globale, tifoso globale: l’era della brandizzazione
Nel 21° secolo, con l’avvento del duopolio Messi-Cristiano Ronaldo e la rivoluzione digitale dei social, anche il calcio quale settore di intrattenimento entra a pieno titolo nel mercato globale dei consumi, offrendo pochi brand di elevatissimo appeal a platee sterminate di tifosi ”a bassa intensità” che si nutrono di higlights, reel, contenuti veloci e frammentati. Da YouTube in poi, il mondo si divide tra messisti e ronaldisti, spettatori globalizzati che si alimentano a clip dei singoli eroi e non tifano più le decadenti squadre locali nelle categorie inferiori. Seguono soprattutto i giocatori più spettacolari e vincenti, passano da Cristiano Ronaldo a Kylian Mbappé, da Messi a Lamine Yamal, dal Barcellona all’Inter Miami. Gli stessi campioni del mondo contemporaneo, oggi, incarnano identità transazionali complesse, difficilmente riducibili a singole identità nazionali o regionali: l’afro-parigino Mbappé è francese di padre camerunense e madre algerina; Yamal è spagnolo, di lingua e identità catalana, con origini marocchine dal lato paterno e guineano dalla madre. La stessa biografia di Erling Braut Haaland, norvegese, è tutt’altro che lineare: nato a Leeds e cresciuto in Inghilterra con il padre calciatore, ritorna in patria durante l’adolescenza per poi ripartire, giovanissimo, verso l’Austria (Salisburgo) e poi sviluppare la propria carriera un po’ in giro per l’Europa, tra Dortmund e Manchester.
La rivoluzione digitale del legame tra i tifosi e i loro idoli si accompagna alla progressiva trasformazione del calciatore in azienda-multinazionale. Per Vinicius Junior, stella contemporanea del Real Madrid, lavora addirittura uno staff composta da 40 professionisti: procuratori, consulenti legali, fisioterapisti e preparatori personali, ma anche chef e specialisti di marketing. Un po’ icone pop e un po’ content creator, i campioni del 2025 raggiungono fette di pubblico più vaste degli stessi bacini di tifosi tradizionalmente legati alle squadre. Esemplare, in questo senso, l’accordo stretto tra la Juventus e l’influencer Cristiano Ronaldo, l’essere umano più seguito sui social network. Più che una semplice acquisizione sportiva, un accordo di collaborazione (oggi, nel gergo digital, si abbrevia in “collab”) tra grandi marchi decisi a proiettarsi mediaticamente, nel pianeta, sempre con maggior forza. Bilancio? Gol, tanti. Titoli, pochi. Una storia più di idolatria che di reale amore, spezzata dalla sosta Covid. E poi, un pomeriggio di fine estate del 2021, un volo preso per l’Inghilterra, per tornare nello United, e poi migrare in Arabia. Un addio consumato frettolosamente, senza le lacrime che avevano bagnato il saluto di altri fuoriclasse della storia bianconera.
Gli stessi allenatori delle grandi squadre, oggi più manager delle risorse umane che tecnici, spesso dichiarano di dover gestire 25 aziende e non più 25 atleti. Eppure – e potrà sembrarvi paradossale alla luce di quanto appena letto – c’è un momento sacro capace di conservarsi, nel quale anche i calciatori strapagati, ricoperti di denaro da società private e sponsor, arrivano a piangere e strapparsi la maglia per un sentimento condiviso, un valore, una bandiera, ritrovando una simbiosi viscerale con il pubblico.
C’è un momento sacro capace di conservarsi, nel quale anche i calciatori strapagati, ricoperti di denaro da società private e sponsor, arrivano a piangere e strapparsi la maglia per un sentimento condiviso, un valore, una bandiera, ritrovando una simbiosi viscerale con il pubblico. Quel momento arriva ogni quattro anni e si chiama Coppa del Mondo
Quel momento arriva ogni quattro anni e si chiama Coppa del Mondo. Manifestazione alla quale i campioni contemporanei, al netto di premi, partecipano gratis. Basti ricordare il caso di Messi e dell’Argentina: icona globale ma a lungo ripudiato in patria per i ripetuti fallimenti con la Nazionale, spesso svilito dal confronto con Maradona, chiude il cerchio nel 2022, raggiungendo l’estasi definitiva ed elevandosi, davvero, a mito della nazione, solo quando l’Albiceleste supera la Francia nella finale di Doha.
In fondo, anche la storia del calcio è ciclica. E quella del legame tra i tifosi e i loro campioni non fa eccezione.