stelle

N.04 Ottobre 2019

MEMORIA

Il canto di speranza dei violini della Shoah

Amnon Weinstein ha imparato l'arte liutaria alla scuola cremonese Oggi raccoglie e restaura gli strumenti con la stella di David regalando attimi di libertà a chi li suonava nei ghetti o ad Auschwitz

Prima della seconda guerra mondiale, la famiglia Weinstein  era formata dal quasi 400 persone. «Era una grande famiglia, come molte all’epoca nelle comunità ebraiche in Polonia e nell’Est Europa», racconta Amnon, figlio dei due degli unici tre sopravvissuti, oggi 80enne. Ha studiato liuteria a Cremona più di 60 anni fa, ma parla ancora un ottimo italiano, seduto nella sala della fiera Cremona Musica International dove è allestita la mostra di «Violins of Hope», dedicata al suo progetto di recupero degli strumenti sopravvissuti alla Shoah.

«Parlare dell’Olocausto non è come parlare con l’olocausto»

Amnon Weinstein

Solo in tre dei Weinstein – il padre, la madre e uno zio del liutaio – sopravvissero alla guerra, ai campi, allo sterminio. «Oggi possiamo dire che in quegli anni sono stati uccisi 6 milioni di ebrei, ma la gente non riesce a capire. Non si può immaginare una cosa del genere. Ma prendi un violino e racconta che fu suonato in un ghetto o in un campo di concentramento, parla della storia, della persona che lo ha suonato… Allora la gente può capire davvero che cosa fu quella catastrofe. Parlare dell’Olocausto non è come parlare con l’olocausto».

Da quasi 25 anni Amnon Weinstein raccoglie i violini sopravvissuti al disastro della Seconda Guerra Mondiale, li restaura nella sua bottega liutaia e li consegna a solisti e orchestre perché li facciano suonare. Ne ha già restituiti ottanta alla vita, altri cinque lo aspettano sul tavolo del laboratorio in Israele. Dodici li ha portati nella città che gli ha insegnato l’arte che quest’anno gli ha riservato il “Cremona Music Award”. Non sono pezzi di antiquariato e nemmeno documenti storici: «Non sono restaurati per stare nei musei, ma per le sale da concerto».

Molti di questi violini portano impressa una stella di David, alcune incise, altre finemente decorate. Provengono dalla tradizione klezmer, quella degli strumentisti amatoriali, molti dei quali di origine ebraica, che nell’Europa dell’Est e in molte altre parti del mondo trovavano uno spazio di espressione nella musica popolare. Il violino ne diventa lo strumento simbolo a partire dalla prima metà dell’Ottocento. Poi sono arrivate le confische naziste, i ghetti, i carri bestiame, Auschwitz… E dopo la guerra il rifiuto dei musicisti israeliani a tenere tra le mani un oggetto fabbricato in Germania. Il primo a raccogliere questi oggetti maledetti fu Moshes Weinstein, il padre di Amnon, liutaio e violinista. «Io – confessa oggi il figlio d’arte – ho impiegato anni prima di iniziare il progetto “Violins of hope”. Ho preso tempo finché mi sono detto “adesso, attacca”. Se sono stati loro a venirmi a cercare? Chissà…». Allarga le braccia, sorridendo sotto il suo bel paio di baffi grigi a ferro di cavallo.

In molte interviste Amnon ha parlato della sua paura a toccare quei violini. «Ma è la paura che prende quando ti avvicini a tutti i violini e pensi alla storia che hanno. Succede con uno Stradivari o un Amati». E succede con il violino di Lione, lanciato da un deportato dal vagone del treno diretto ad Auschwitz: «Dove sto andando non mi servirà», gridò al buio mentre un operaio francese lo raccoglieva dai binari; succede con il violino JHV 23 appartenuto ad un detenuto di Auschwitz o con il numero 39, il primo violino all’esordio della Palestine Orchestra, il progetto che salvò le vite di molti musicisti ebrei e delle loro famiglie.

Per strade contorte, varcando confini e continenti, i violini arrivano silenziosi attraverso i discendenti delle vittime della Shoah al laboratorio di Weinstein che li restaura, riaccende la loro voce e dà a ciascuno un nome: «Sono i nomi delle persone che ne raccontano la storia», spiega. Tra questi c’è anche il JHV 16 Bielski, dedicato al suocero di Amnon, Assael Bielski, uno dei tre fratelli della brigata partigiana che salvò 12.340 ebrei bielorussi e a cui Hollywood ha dedicato un film con Daniel Craig, “Defiance – I giorni del coraggio”.

«Se sul violino c’è la stella sappiamo da dove viene. Conosciamo la sua storia». E il modo che ha uno violino per raccontarla è la musica, i concerti della speranza che Weinstein organizza in tutto il mondo. «Quando un musicista ce lo riconsegna dopo averlo suonato – racconta – i suoi occhi brillano. E se si osserva il pubblico durante il concerto, vedi le persone fare così…». Weinstein si passa una mano sugli occhi come a togliersi una lacrima.

Pensa ai luoghi dove quegli stessi strumenti avevano suonato prima di diventare stelle di speranza: «In quei due, cinque o dieci minuti in cui i loro violini suonano in una sala da concerto, portiamo le persone che li hanno suonati laggiù fuori dal ghetto o dal campo. Sono due, cinque o dieci minuti di libertà».