città
N.03 Settembre 2019
N.U.: la capitale silenziosa di Antonioni
Ci sono due modi di raccontare il brulicante formicolio delle città. Il primo è quello di una cartografia puntiforme che trovi l’identità di ciascuna, come nelle Città invisibili di Italo Calvino, nel confronto tra luoghi diversi. Il secondo modo opera invece attraverso la stratificazione, e tende a portare in luce, all’interno di un singolo territorio, i diversi gruppi sociali che lo compongono: posti l’uno in relazione all’altro, essi restituiscono la complessità dell’aggregato urbano.
Alla sua seconda regia, Michelangelo Antonioni sceglie di affidarsi a questo secondo tipo di racconto, e in N.U. pone il suo sguardo sugli spazzini della capitale. Realizzato nel 1947, in piena stagione neorealista, il documentario restituisce un volto sconosciuto di Roma. «Nel corso di una giornata – spiega la voce over – molta gente, molte cose e lavori si sfiorano che sembrano consueti e noti, e di cui si sa invece ben poco, quel poco soltanto che sta a diretto contatto con gli interessi e la vita di ciascuno di noi: tutto il resto ci è estraneo».
A dispetto della poetica neorealista, tuttavia, lo scopo del regista non è quello – o non lo è prioritariamente – di aprire uno squarcio sociale o morale sulle condizioni di vita di un sottoproletariato urbano. Certo gli spazzini ripresi all’alba, mentre iniziano il lavoro prima che la città si svegli, oppure nell’atto di consumare pasti frugali, o di sognare cibi ghiotti esposti in una vetrina, o ancora di rincasare in abitazioni fatiscenti, raccontano di una condizione di vita difficile, che si muove letteralmente e metaforicamente tra gli “scarti”. Ma Antonioni è interessato a rendere anche il valore figurativo di queste presenze che punteggiano – nei loro grembiuli larghi, nelle loro scope svolazzanti o trascinate come appendici del corpo – il panorama urbano. «Gli spazzini – dice sempre la voce over – fanno parte della città come qualcosa di inanimato. Eppure nessuno più di loro partecipa alla vita cittadina». Quasi assecondando l’imprevedibile traiettoria delle cartacce, dei rifiuti, le immagini restituiscono una geografia urbana sovvertita e libera, destituita della propria monumentalità, che passa dalla Terrazza del Pincio a piazza del Popolo, da Viale Libia a Piazza Vittorio, a Trastevere, alle pendici di Monte Mario.
Il regista sceglie di rinunciare anche al racconto ma di affidarsi a un montaggio che procede «a lampi, a inquadrature staccate, isolate, a scene che non avessero alcun nesso l’una con l’altra ma che dessero semplicemente un’idea più mediata di quello che io volevo esprimere».
Tuttavia la città degli spazzini non è semplicemente una successione di quadri autonomi, di immagini dal forte impatto visivo.
Essa trova un respiro, un afflato corale, nel ritmo del lavoro quotidiano, di cui N.U. marca i momenti forti: l’inizio della giornata, il pasto, il riposo, il rientro a casa, la sera. Allo stesso modo la musica, fatta di momenti che si susseguono con un andamento quasi circolare (da una melodia malinconica ai rumori di un treno, al Preludio n. 8 in mi bemolle minore BWV 853 di Bach, a un valzer suonato al pianoforte, a una musica jazz, a un fox-trot, e di nuovo alla musica jazz, al Preludio di Bach, al fischio del treno e al tema iniziale), restituisce l’idea di una compattezza che àncora tenacemente gli spazzini al loro contesto di vita, ora mesto, ora solenne, ora gioioso.
Come osserva Carlo di Carlo, questo documentario rappresenta «un’introduzione precisa a ciò che il regista intende per paesaggio, per ambiente, per atmosfera: quindi non décor, ma sfondo come segno linguistico che significa, che designa».
N.U. insegna a osservare lo sfondo della città per innestarvi i segni, vivi, che la costituiscono; a non dare per scontato nulla, pena la confusione, la perdita di ogni principio di individuazione e dell’essenza della polis.