segni

N.51 Giugno/Luglio 2024

riflessi incontra

Professione restauro, detective del bello sulle tracce del tempo

Enrico Perni racconta con passione il mestiere del restauratore: «Un po' chimici un po' artigiani, abbiamo il compito di scovare indizi utili a ricostruire la vita di ciò che ci capita tra le mani»

«Per me il segno è il grande interrogativo. È il punto in cui ti devi fermare, per chiederti se sia il caso di andare avanti». Enrico Perni riassume così il delicato compito del restauratore. Da circa trent’anni lavora con Luciana Manara nello studio di via Robolotti, dove si occupa di riportare opere d’arte e antiquariato all’antico splendore, senza cancellarne la storia.

«Il mestiere che ho scelto – racconta – ha un approccio più tecnico-scientifico che creativo, a cavallo tra scienza e cultura. La sua complessità ti richiede di essere un po’ storico dell’arte, un po’ chimico, un po’ fotografo, un po’ artigiano». Tante anime diverse, alimentate dalla collaborazione con altri professionisti del settore, in un continuo scambio di conoscenze. «Suonerà banale, ma non si smette mai d’imparare: più lavori e più alimenti dubbi, acquisisci conoscenze e trovi spunti da approfondire”. Tecniche e materiali sono in continua evoluzione, così come l’approccio migliore da adottare per ogni singolo caso.

«Il tempo segna e insegna – precisa Perni – occorre studiare per capire come preservare al meglio ciò che ci viene affidato». Può trattarsi di dipinti o sculture, mobili antichi o cornici d’epoca, su cui i secoli hanno lasciato la firma. «Dal 1600 in poi si parla di “tempo pittore” – spiega Perni – quest’espressione si riferisce all’effetto dell’invecchiamento di un’opera. Lo ritroviamo nel tono dorato che le vernici assumono con il passare degli anni, o ancora nella “crettatura”, le leggere screpolature che vediamo sulla superficie dei dipinti. Sono le “rughe” delle opere d’arte, che conferiscono un aspetto diverso, unico. Queste imperfezioni raccontano una storia, le vicissitudini attraversate, i segni di devozione… Basti pensare alla bellissima Madonna del Popolo conservata presso il Museo Diocesano di Cremona: la scultura presenta importanti segni di manipolazione: chi la preparava per le cerimonie sacre voleva vestirla più facilmente».

Fino a che punto i segni del tempo sono un valore aggiunto e quando diventano invece un limite alla fruibilità dell’opera? Come spiega Enrico, «occorre trovare il punto d’incontro tra  passato e presente, tra conservazione e restauro. Il confronto con la soprintendenza, i committenti e gli esperti è fondamentale per fare la scelta giusta, assicurando la massima cautela».

Fare ricerca è una parte fondamentale di questo percorso di ricostruzione: «Siamo un po’ detective – scherza – abbiamo il compito di scovare indizi e dettagli utili a ricostruire la vita di ciò che ci capita tra le mani».

«Tutto ci parla,
sta a noi decidere cosa conservare,
per permettere alle persone
di tornare a godere di un’opera,
senza violentarne la storia»

Spesso non mancano le sorprese: è il caso della statua dell’Assunta conservata nella Cattedrale di Cremona, realizzata da Giovani Chiari nel XVIII secolo. «Durante il restauro abbiamo rilevato una piccola cavità in cui era nascosto un documento cartaceo – racconta Perni – che attestava la data, l’autore e ne raccontava la storia, compresa una rocambolesca disavventura capitata in occasione di un’importante festività. Pare che il sagrestano sia caduto rovinosamente mentre cercava di addobbare la statua, che trascinata a terra si ruppe in due parti. Questo aneddoto ci ha permesso di comprendere e trattare alcune anomalie riscontrate durante i primi rilievi». Un’altra curiosità riguarda il restauro di un crocefisso conservato in una parrocchia del territorio bresciano: «Aveva una strana ingessatura nella struttura delle spalle – spiega – con una radiografia abbiamo scoperto che in corrispondenza dell’articolazione era stata inserita una sorta di cerniera, che consentiva di muovere le braccia del Cristo e deporlo durante le funzioni che precedono la Pasqua».

Ad ogni segno la propria storia, insomma. Spesso però è l’interpretazione a determinarne il valore: «Basti pensare ai graffiti preistorici ritrovati sulle pareti delle grotte – riflette il restauratore – può sembrare un azzardo, ma non sono poi così diversi da un segno lasciato con lo spray su una parete». Il gesto – più o meno accettabile – è animato dalla stessa volontà: lasciare un segno del proprio passaggio. «È ciò che l’uomo cerca di fare da sempre: sono i caratteri stampati su un foglio, le pagine sgualcite di un libro antico, gli appunti di un lettore del passato. Tutto ci parla, sta a noi decidere cosa conservare, per permettere alle persone di tornare a godere di un’opera, senza violentarne la storia».