piaceri

N.11 Maggio 2020

RUBRICA

Ricerca del bello fuori dell’«io»

Il piacere come un senso che contiene ed eleva tutti gli altri.
Il bello da vedere, il buono da mangiare, il dolce da ascoltare.
Una voce che rende l’orecchio di ognuno di noi assoluto per quell’intonazione, un sapore che fa esplodere una madeleine di ricordi, un tocco sulla pelle che stravolge il ritmo del battito e aumenta il sangue pompato in atri e ventricoli.

Il piacere tout court, nel suo significato primo e più pieno.

Edonismi innocenti di bellezza regalata a tutte le latitudini del sentire.

«Mi fai un piacere, ti faccio un piacere»

Gesti minuti di presenza

che non sempre vediamo

nella loro preziosità.
Prendersi cura degli altri

con il pensiero

che si fa atto concreto.

Una mano che arriva

anche quando non la chiediamo,

da chi sa sentirci

soprattutto quando non riusciamo

o non vogliamo mostrare il fianco.

L’eterna presenza delle mamme

di sangue e di scelta

che tengono insieme i nostri fili

con i loro punti invisibili

di diamante.

Amici, compagni, incontri

dentro i quali respiriamo,

prendiamo fiato

attraverso le attenzioni,

i carichi che si fanno per noi.
Per dividere a metà.

Che «mal comune mezzo gaudio»…

appunto.

La ricerca innata

di ciò che ci fa bene.
Una tensione atavica

verso il piacere,

che impariamo prima

se la ricompensa è un biscotto

e non la scossa.

Come una bussola

con un’unica direzione

che a volte è quella giusta

e a volte invece inganna.
Mi sembra di stare sempre bene

dove non sono,

diceva Baudelaire.
Un viaggio che non prevede meta

e che perde e ritrova entusiasmo

ad ogni tappa

per potersi autosostenere,

perché il meccanismo che guida

è quello del movimento.

Spostarsi alla ricerca

di un equilibrio precario

che possa farci

un po’ di bene e un po’ di male,

con le nostalgie e i nuovi incontri,

gli addii e i ricordi

somministrati nell’inquieta quête.

L’io come nuovo epicentro

di un universo smidollato.

Creatura fragile

che crede di bastare a sé stessa

e identifica nell’altro

uno strumento di piacere.
«Mi serve questo, me lo dai?»
«Non mi va più,

posso averne un altro?»

dove l’altro è un amico,

un vestito,

un interesse,

un pianeta.
I rapporti che diventano

do ut des desolati.

Relazioni che a volte muoiono

per l’incapacità di guardare all’altro

nella sua totalità:

luci e ombre,

schifezze e splendori.
Cerchiamo la perfezione

perché non abbiamo più il coraggio

di guardare sotto il tappeto,

prima di tutto il nostro.

L’accettazione

come esseri umani

solo se si piace.

Se si rientra

nelle categorie del momento.
Più magri,

più grassi,

più smart,

più digital,

più connessi,

più arrivati,

più ricchi,

mai fermi,

eternamente presenti e collegati.

La trinità di like-cuori-condivisioni

che in barba alla loro etimologia

spargono troppo spesso contenuti vuoti

di momenti che di spontaneo

non hanno nulla.

Felicità posticce

da cotonare per convincere

prima noi e poi gli altri.
Se piace quello che dico,

quello che faccio,

la vita che ho

allora esisto.

Ci sono.
Ho il diritto di esprimermi,

di raccontarmi.
Il consenso del branco

con la voce da intonare,

le opinioni da azzerare

e la scena da seguire.

Le cose piccole

come granelli di serenità.

Imparare a godere

della luce che filtra alle 8

dalle finestre del balcone,

dei camini della città che si sveglia.

Del bollitore già caldo

che qualcuno ci ha preparato.

Della felicità che intravediamo

negli occhi degli sconosciuti,

nelle vite che non conosciamo

ma che ci scaldano

mentre le incrociamo

per qualche secondo.
Il piacere da trovare

nel coraggio

di chi ha fatto scelte difficili,

quello delle mani che si sporcano

anche per le nostre

che teniamo in tasca,

e per le quali dovremmo avere

solo ammirazione

e invece

troppo spesso diventano contenitori

per la nostra frustrazione.
Il piacere di dire grazie

a chi si prende cura di noi,

ogni giorno.
Il piacere sano

come resistenza all’orrore,

alle brutture,

agli assassini della poesia

minuscola quotidiana

che invece ci salva.

Il piacere di costruire

La pazienza del rischio,

del tentativo,

della volontà.

Dell’accettazione dei limiti.
L’arte del rammendo,

dell’oro nelle fessura che dà valore.
Fissa la rottura

rendendola visibile per sempre,

celebra la lezione imparata

e la trasforma in un plus.

Qualcosa di prezioso

che senza andare in pezzi

non avremmo mai imparato.
Il piacere

che sa rinascere dal dolore

perché lo ha ascoltato.
L’utopia concreta di mettere insieme

ogni giorno un’idea di mondo,

di vita, di realtà migliore.

Anche per poco, anche di poco.

Un nonnulla che però non si arrende,

che prova,

che fallisce

e ricomincia.

Perché la sconfitta

non è mai una resa

e la fede e l’illusione

sono due galassie lontanissime.
In mezzo ci sta sempre la volontà,

l’ideale, l’impegno.

Il piacere della fatica

bella quanto necessaria

per trovare il senso,

ad ognuno il proprio.