strappi
N.62 settembre 2025
Riabilitazione neurologica: «Ricuciamo lo strappo tra corpo, mente»
Francesco Benazzi, fisioterapista riabilitativo della clinica Ancelle di Cremona racconta il lavoro con le persone colpite da ictus: «Non si parla di strappo a livello muscolare, ma di strappo psicologico, fisico e del tuo ruolo all’interno della società»

Fisioterapista nelle patologie del sistema nervoso centrale e periferico: Francesco Benazzi, cremonese, 33 anni, ha scelto senza indugi e con passione una specializzazione tanto delicata quanto complessa. Nelle sue parole, nel ritmo con cui le scandisce, c’è tutta la responsabilità di una professione totalizzante: «Mi sono laureato nel 2015 tra i corridoi del San Raffaele di Milano e ho sempre trattato pazienti neurologici, proprio perché quello milanese è un centro di ricerca all’avanguardia sulla sclerosi multipla. Nel 2023 ho deciso di approfondire ulteriormente conoscenze e competenze attraverso un master in fisioterapia neurologica a Verona. Oggi insegno ai giovani universitari del secondo anno del corso cremonese, distaccamento di Brescia, tutto ciò che ho imparato in questa prima parte della mia vita professionale».
Che cosa spinge un giovane studente di fisioterapia ad esplorare un campo così complesso della professione? «Mi ha sempre affascinato lo studio del cervello, capire come funzionano i meccanismi che stanno alla base del movimento umano. Qui non si parla di strappo a livello muscolare, ma di strappo psicologico, fisico e del tuo ruolo all’interno della società. Si crea un distacco tra la persona che sei e quella che vorresti essere nella nuova realtà che la malattia ti impone. Non tutti i pazienti riescono a riallacciare i lembi dal punto di vista umano».
Qui non si parla di strappo a livello muscolare, ma di strappo a psicologico, fisico e del tuo ruolo all’interno della società. Si crea un distacco tra la persona che sei e quella che vorresti essere nella nuova realtà che la malattia ti impone
Lo spettro di problematiche affrontate sono tutte legate dallo stesso denominatore comune: «Mi occupo di recupero di gravi cerebrolesioni, anche traumatiche da incidente. Possono riguardare persone molto giovani. Tratto situazioni di recupero da episodi sclerosi multipla e stroke, tradotto in italiano: ictus. Come di lesioni midollari. L’età di esordio, in generale, si è abbassata. Il primo step? Una valutazione fisioterapica, capire quale sia l’entità del danno. Non è mai il mio lavoro, né quello del singolo, ma di équipe, gruppo in cui sono coinvolti medico, infermiere, fisioterapista, logopedista, neuropsicologo. Io mi occupo delle funzioni motorie, senza escludere quelle esecutive. Fondamentale, a seconda della lesione, è capire in che modo il cervello apprende per studiare l’approccio migliore».
Il punto di partenza è sempre uno e uno solo: «La prognosi è decisiva e la medicina non è una scienza esatta. Occorre attivare dei protocolli, capire quando e come il paziente potrà recuperare. Le domande a cui rispondere sono delicate: camminerà ancora o no? Se si, come? Muoverà ancora il braccio? L’ictus infatti colpisce un emilato. Generare apprendimento motorio nel paziente è la chiave, anche attraverso un nuovo meccanismo o sistema. Il nostro tipo di apprendimento si basa su intensità e ripetizione del gesto. Apprende perché deve ripetere, non in un setting, ma sviluppandolo, riduce l’esercizio ad un problem solving motorio. Il cervello impara a rispondere il più possibile alla variabilità delle situazioni ambientali che si possono verificare. Se la lesione è troppo grande magari non suonerà più il pianoforte, ma prenderà in mano un bicchiere o potrà indossare autonomamente la camicia. È evidente come la prognosi deve essere il più precisa possibile, perché non bisogna illudere il paziente. Inizialmente non hai mai la certezza assoluta di nulla e le variabili in gioco sono tantissime. Per questo non possiamo pensare che una sola figura in ambito medico possa essere la soluzione. Il percorso è multidisciplinare attraverso il lavoro di un gruppo che dialoga costantemente. Il risultato è più della somma delle singole parti. Il sistema umano è una macchina complessissima».

Come si costruisce l’approccio corretto? «Lo apprendi con esperienza e tempo. Trovare le parole giuste non è sempre facile. Più sei competente e capace, più sei certo di tarare la prognosi sul paziente. Il paziente ogni giorno chiede se camminerà o muoverà un braccio. Brancolare nel buio è la cosa peggiore. Anche la capacità di dialogo è decisiva. Portiamo i pazienti al limite, gli esercizi sono intensissimi e noi manteniamo un atteggiamento sempre sfidante. E loro si devono fidare. È la letteratura che ci dice che questo è il modo giusto. Porti il paziente di fronte alle proprie disabilità in un percorso spesso molto lungo. Seguire le linee guida va bene, poi occorre tenere conto della persona. C’è chi reagisce con forza, chi si apre al baratro della depressione. Una cosa però è certa: per rispondere ad un bisogno di salute, la competenza clinica è fondamentale».
Si crea, inevitabilmente, un legame forte con il paziente e questo aspetto diventa decisivo per costruire una “relazione” terapeutica. «Conoscere la storia del paziente è di fondamentale importanza: cosa gli piaceva fare, gli hobby, le abitudini. I primi tre mesi sono i più importanti, se procrastini il percorso può diventare complicato. Se sei un chitarrista e non recuperi l’uso del braccio è un problema, mentre se abitualmente la tua attività è portare fuori il cane, puoi facilmente trovare la soluzione cambiando la mano con cui tieni il guinzaglio. Questo è solo un esempio. Con i ragazzi giovani? È molto più complesso, a volte umanamente non è facile stare di fronte a loro, perché le aspettative sono molto alte. L’obiettivo è stipulare un “contratto” con il paziente su obiettivi riabilitativi. A volte capita vi sia la non accettazione della condizione. E se avviene ciò, il paziente non mette in atto le strategie per costruire il lavoro successivo. Capita, per esempio, di preparare la carrozzina elettrica e poi decida di non uscire con gli amici perché in quella condizione non vuole farsi vedere. Dobbiamo infondere fiducia e non far sentire il paziente solo, perché la solitudine è dietro l’angolo».