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N.57 febbraio 2025
Storie e parole (giuste) per superare i “Ristretti Orizzonti” del pregiudizio
A Padova un giornale realizzato dai detenuti racconta la vita dentro la casa di reclusione creando un ponte con il "mondo fuori"

Ristretti Orizzonti non è una rivista, ma un ponte costruito per unire due mondi, per far incontrare chi sta dentro con chi sta fuori. Tra di loro non c’è un fiume da attraversare, ma alte mura di cemento, coronate da garitte e telecamere. Sembrerebbe un’impresa impossibile, invece quel collegamento esiste, resiste e, da qualche mese, ha festeggiato («anche se in carcere non si festeggia») i suoi primi, tenacissimi, venticinque anni di vita.
«L’idea è nata il giorno in cui mia sorella, che insegnava nella Casa di reclusione di Padova, mi chiese di fare un paio di incontri con le sue classi sul tema della comunicazione», racconta Ornella Favero, giornalista per passione e professione. Da quell’appuntamento uscì avendo, fisso nella mente, un accorato appello: «Non ci ritroviamo in quello che viene scritto sui giornali riguardo a noi detenuti, aiutaci a far sentire la nostra voce, dacci una mano a creare un notiziario».
«Non ci ritroviamo in quello che viene scritto sui giornali riguardo a noi detenuti, aiutaci a far sentire la nostra voce, dacci una mano a creare un notiziario»
Ornella, donna combattiva, accettò la sfida. Prima di iniziare, però, pose due condizioni. «Non avrebbe dovuto essere un “giornalino” perché non sopporto i diminutivi che, in carcere, vengono utilizzati per infantilizzare chi è rinchiuso. Da un luogo identificato come privo di ogni possibile valore, io chiedevo che emergesse un notiziario di qualità. Le parole sono importanti, vanno usate con cura; su questo non transigo».
La seconda condizione, giocando come con la prima sul filo del paradosso, era che l’informazione fosse onesta.
Una volta messi i paletti, Ornella è partita, insieme con alcuni volontari, per andare a visitare le redazioni già attive sul territorio. Al grido di «Copiamo dai migliori!», ha condotto il drappello a conoscere alcune realtà esistenti a quel tempo, da Il Due di San Vittore a La grande Promessa di Porto Azzurro. Tutte esperienze interessanti di cui, però, solo poche sono sopravvissute fino ad oggi.
«Il fatto di lavorare in una Casa di reclusione, con detenuti sottoposti a pene alte, ci ha permesso di avere il tempo necessario per fare un lavoro serio, che andasse in profondità. Il nostro non è un progetto “apri e chiudi”, ma prosegue con costanza da più di vent’anni. Ci sono detenuti arrivati con un vocabolario povero e che oggi, a distanza di tempo, sono diventati abili comunicatori».
«Da un luogo identificato come privo di ogni possibile valore, io chiedevo che emergesse un notiziario di qualità.
Le parole sono importanti, vanno usate con cura; su questo non transigo»
A tal proposito osserviamo che, negli ultimi anni, i redattori hanno probabilmente incontrato numerose persone di origine straniera: la lingua si è rivelata un ostacolo alla possibilità di coinvolgimento? «Al grande tavolo attorno a cui ci sediamo, simbolo della rivista, si impara l’italiano parlando e confrontandosi», spiega Ornella. «Ricordo un ragazzo cinese che non conosceva una parola della nostra lingua e che, per questo motivo, tendeva a rimanere sempre in compagnia dei suoi connazionali. Oggi, a distanza di anni, e nonostante abbia terminato la pena, continua a seguirci quando svolgiamo gli incontri nelle scuole: è diventato un ottimo comunicatore».

Per raggiungere questi risultati è importante la continuità dell’impegno: durante la settimana la redazione si riunisce tutti i pomeriggi, di cui uno dedicato all’incontro con le scuole. «Io porto la rassegna stampa di Ristretti Orizzonti (link) che raccoglie, quotidianamente, tutto quello che viene scritto sui siti di comunicazione riguardo alle carceri. Dall’analisi delle notizie emergono sempre degli spunti da approfondire. In alternativa leggiamo le missive ricevute dagli studenti che incontriamo sia dentro che fuori dal carcere».
Il focus di Ristretti Orizzonti è la vita dei detenuti, le loro storie, le loro riflessioni per capire come si arriva a commettere un reato. «Il lettore vuole avere l’opportunità di confrontarsi con informazioni che non trova su altri media. I detenuti hanno competenza sulla vita del carcere, per questo motivo mi interessa che scrivano di cosa accade dentro le mura. Non si tratta di uno sfogatoio, ma di un ponte con la società esterna».
«I detenuti hanno competenza sulla vita del carcere, per questo motivo mi interessa che scrivano di cosa accade dentro le mura. Non si tratta di uno sfogatoio, ma di un ponte con la società esterna»
E la collettività come risponde a questa proposta proveniente da un luogo di cui spesso si preferisce non parlare? «Il lavoro con le scuole mi fa essere molto ottimista se guardo al futuro dell’umanità: da quando i ragazzi varcano le porte del carcere a quando escono, dopo aver dialogato con i componenti della redazione, noto un grandissimo cambiamento. L’incontro autentico fa cadere molti pregiudizi».
Un risultato strettamente legato allo stile comunicativo scelto per parlare di un tema tanto delicato: «Se racconti sempre di quanto stai male dietro le sbarre, porti le persone a pensare: “non poteva pensarci prima di compiere il reato?”. Ecco, noi vorremmo rispondere a questa domanda rifiutando la scelta del registro vittimistico, a nostro parere il più sbagliato per affrontare l’argomento», afferma con decisione Ornella.
Il vostro lavoro è stato lo spunto per l’avvio di esperienze simili?
«Sono nate, negli anni, delle redazioni a Genova, Parma e Rebibbia. Alcune riviste escono come supplemento a Ristretti Orizzonti, un nostro contributo per supportare realtà emergenti. Sosteniamo anche la formazione, aiutando ad affrontare i primi passi del cammino, quelli più difficili da affrontare. Organizziamo incontri, anche online, per offrire suggerimenti pratici. A breve attiveremo un Coordinamento delle realtà informative dal carcere e del carcere».
Salutiamo Ornella e la immaginiamo, insieme alla redazione di Ristretti, mentre progettano altri ponti da gettare da un lato all’altro della sponda, e formano altri costruttori che rendano possibile l’idea di riavvicinare chi vive fuori a chi vive dentro le mura, consapevoli che – citando Mauro Corona – i ponti «uniscono separazioni, come una stretta di mano unisce due persone».