eroi

N.18 Febbraio 2021

RITRATTI

«Un bravo pompiere sa cos’è la paura»

La caserma, la campana che suona, il gioco di squadra e quello che ti resta negli occhi...

«Ogni mattina, quando esci di casa, non sai dove andrai, non sai se tornerai. In ogni istante può capitare qualcosa che ti cambia la vita». Salvatore Belluardo è vigile del fuoco, per passione e per vocazione. Lo suggerisce il nome, anche se in caserma tutti lo chiamano Tore. Da trent’anni è al servizio del Comando provinciale di Cremona, dove ci accoglie poco dopo le 9 di mattina. Alle sue spalle, la carrozzeria rossa di un’autopompa spicca nel cielo grigio di febbraio, sospeso come la quiete apparente in cui tutto può succedere.
«Per fare il pompiere serve tanta preparazione e apertura mentale: potresti trovarti nel Po, sul Torrazzo, in un incendio… Ogni giorno è un’incognita, bisogna essere pronti a tutto. Per me è il lavoro più bello del mondo», ammette con un sorriso che riempie gli occhi, verdi come la divisa. Sotto la spalla sinistra è cucito il distintivo di capo reparto, tre linee dorate su fondo rosso. Sul lato destro, la scritta “SAF” indica l’appartenenza al nucleo speleo-alpino-fluviale, «Anche se a Cremona i cavalcavia sono le nostre montagne e i pozzi le nostre grotte».

La sua esperienza inizia dopo il servizio militare: «Avevo ventiquattro anni – racconta – All’epoca non contava il diploma in sé, si entrava come artigiani. Io facevo il meccanico». Lo svelano le mani, grandi e salde, che accompagnano le parole con gesti decisi. Per entrare nel corpo nazionale è necessario candidarsi al concorso pubblico e superare l’esame d’idoneità, seguito dal corso di formazione a Roma. «La formazione è importante, ma molti dimenticano che questo è un mestiere pratico», sottolinea. «Nozioni e voti contano poco quando ti ritrovi in caserma, dove dal primo giorno di servizio sei vigile del fuoco a tutti gli effetti. Lo ripeto spesso ai miei ragazzi: d’ora in poi non si scherza più». Con sguardo attento segue tre giovani pompieri impegnati nel controllo dell’attrezzatura, un rito che si ripete all’inizio di ogni turno. Dodici ore, dalle 8 alle 20, e viceversa.

«C’è sempre una squadra pronta a partire, cui può seguirne una seconda. Oggi per spostarci utilizziamo i navigatori, ma in ufficio abbiamo ancora i cartellini con le indicazioni per raggiungere tutte le vie della città e i Comuni della provincia». Per Tore le mappe sono tutte impresse nella mente, «perché la memoria non si scarica e funziona anche se non c’è campo».

«Rientrare
con la tua squadra al completo
è il premio più grande»

Tra il suono della sirena e la partenza trascorre un minuto e mezzo. Il tempo di afferrare il casco, raggiungere il camion e tuffarsi in una nuova emergenza. «L’allarme è adrenalina pura: sai che dovrai dare tutto in una manciata di minuti. Quando pensi che sia finita, ti rendi conto che hai ancora tutta la giornata davanti! – ride – Scindere azioni ed emozioni è fondamentale per rimanere lucidi senza lasciarsi consumare da ciò che ti accade attorno. Spesso ti trovi a contatto con la vita e la morte, con il dolore di chi ha perso qualcuno». Con una mano ravvia i ricci brizzolati, quasi per allontanare un pensiero cupo. «Non è ciò che vedi a devastarti, è ciò che porti con te una volta terminato l’intervento. Per questo non si deve abbassare la guardia fino al rientro in caserma».

Le richieste di aiuto sono le più svariate: gatti sugli alberi, incidenti stradali, interventi in aziende e abitazioni private. Tore ricorda la sua prima esperienza: «Era un incendio in cascina: l’inferno di cristallo. Fiamme ovunque, tensione a mille… Bisogna restare lucidi, consapevoli, resistenti ma elastici, per adattarsi ad ogni situazione. Impari a conoscerti, a dosare energie e concentrazione: un intervento può durare dieci minuti o un giorno intero». Soprattutto quando le richieste d’aiuto arrivano da fuori territorio e occorre unire le forze: «Ci sono allarmi per calamità che richiedono supporto da tutta Italia, come terremoti e alluvioni. Negli ultimi nove anni siamo stati a Catania, L’Aquila, Amatrice, Assisi, Genova…»

Molti li chiamano “eroi”, ma quando si parla di superpoteri Tore ha le idee chiare: «Ne abbiamo solo uno: la paura. Devi avere paura. Se sei bravo a gestirla, sei un bravo pompiere. Altrimenti la subisci. È bravo chi torna a casa, chi sa fermarsi. In quei momenti non ci sono supereroi, c’è solo la squadra, che è come una famiglia. Senza legami, siamo solo numeri». Il collante è l’amore per il mestiere, ultimamente reso più complesso da normative e procedure di sicurezza. «Per salvare una vita non puoi metterne in pericolo un’altra», prosegue il capo reparto. «Occorre valutare situazioni, imprevisti, emozioni, soprattutto quelle di chi viene soccorso. Dobbiamo adeguarci a ciò che succede, al cambiamento della società».
Così è stato nell’anno della pandemia: tra lockdown e restrizioni, gli incidenti stradali notturni sono quasi azzerati, mentre sono aumentate le richieste di aiuto da parte di anziani soli e le richieste di aiuto da parte di persone psicologicamente fragili. «Anche in piena emergenza è necessario saper ascoltare, capire chi si ha di fronte e creare un contatto». La gratitudine spesso si nasconde negli sguardi silenziosi, «Ma non è ciò che cerchiamo: essere bravi non è un merito, è un dovere. Rientrare con la tua squadra al completo è il premio più grande».
Con un gesto recupera la giacca da pompiere e la stringe al petto. «Dopo trent’anni, la divisa è un po’ la tua vita. Bellissima, ma ha un peso non indifferente. Se non ami questo lavoro, è difficile indossarla tutti i giorni». Tuttavia, a fine servizio, c’è chi non riesce ad abbandonarla: «Ci sono colleghi in pensione che tornano in caserma tutte le mattine, anche solo per un saluto. Per molti è difficile lasciarsi alle spalle questo mestiere, perché ti insegna a vivere».