radici
N.29 Marzo 2022
Un senso all’accogliere di fronte al dolore del mondo
Proprio la vicinanza, la familiarità fisica ed in parte culturale e geografica con i profughi ucraini che non hanno la pelle scura, non portano lo stigma tribale né l’aura del "primitivo", sono oggi un sommesso grido che trascina con sé ogni umano profugo...
Accogliere e cogliere: fare spazio e dare senso. Credo che queste dimensioni, in tutta la loro concretezza, debbano andare di pari passo, pur dentro un’emergenza che preme alle porte di una Europa impaurita. L’una non può restare priva della forza e della determinazione dell’altra. Da sempre siamo esposti, come esseri umani, alla distonia della gnosi (mi basta il sapere, quello astratto, intellettualmente puro) come pure all’emotivismo dell’oggi, esasperato dal flusso di informazioni che riplasmano la nostra coscienza.
L’emergenza ucraina sta richiedendo uno sforzo di attenzione che, dopo i mesi dell’esposizione più acuta al covid, certamente nessuno avrebbe desiderato. “Anche questa”, si dice, con tono fatalistico, come se la guerra in Ucraina si possa definire come l’unica interferenza rispetto al ritorno alla normalità, o come l’eccezione alla pace ritrovata. Ma proprio la vicinanza, la familiarità fisica ed in parte culturale e geografica con i profughi ucraini che non hanno la pelle scura, non portano lo stigma tribale né l’aura del “primitivo”, sono oggi un sommesso grido che trascina con sé ogni umano profugo, ogni famiglia che è costretta, in zone vicine o lontane, a recidere le proprie radici e imbarcarsi sulla carovana incerta del futuro, altrove. «Fratelli tutti» scriverebbe Francesco, suscitando chissà quante obiezioni anche cattoliche.
Ogni altrove dovrebbe smuovere la mia capacità di cogliere, oltre che di accogliere, e di accogliere proprio perché ho colto, o cerco di farlo, quanto c’è in ballo. Troppo spesso la pelle si fa, da tessuto poroso e organo del contatto, barriera, strumento di separazione. E diviene la pelle della mia famiglia, della mia nazione, della mia comunità, tendenzialmente omogenea e codificata da sanzioni tradizionali, magari anche religiose (di quella religione che non libera la profezia dei figli di Dio, ma ingabbia le identità). Aveva ragione anni fa Iulia Kristeva nel suo splendido Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, datato 1988.
Accogliere oggi mamme con minori provenienti dalla porta orientale dell’Europa conserva tutto il carattere tragico dell’emergenza, dell’ennesima emergenza; ma è ancora una volta occasione per toccare con mano l’avanguardia dell’umano che mi si fa prossimo, contro la mia (e la sua!) volontà, compreso quello afgano, quello africano, quello…
Nel II secolo a. C., ben al di qua del nuovo evangelico, un commediografo forse nemmeno più studiato nei nostri licei, Terenzio, faceva dire ad un suo personaggio: Homo sum, nihil humani alienum a me puto (sono un uomo. Non ritengo nulla di quanto è umano a me estraneo). Un’affermazione pesante, persino soffocante se messa a terra oggi, nel bel mezzo del villaggio globale che in tempi reali può offrire resoconti spietati del male che subiscono gli innocenti e della perversione dei prepotenti. Di certo non stupisce che la mia pelle si irrigidisca, che i suoi pori si chiudano, che i miei occhi abbassino le palpebre, nella speranza che, non vedendo, il problema dell’umano svanisca, come una opinione platonica o come un incubo che non fa dormire.
Siamo tutti esseri limitati e nessuno, nemmeno un papa o un leader mondiale può portare sulle proprie spalle il dolore del mondo. Nel Cristianesimo questo compito è assegnato, non senza difficoltà, al Figlio dell’uomo, a quel Cristo che reca sulla croce il non-senso del fallimento, coinvolgendo addirittura Dio, il suo amore e la sua stessa morte. Vertigine filosofica e paradosso religioso. Ma anche questo sembra non bastare, se ridotto ad uno spettacolo che si gioca su di un palcoscenico del passato e se di questo spettacolo forse conosco già l’epilogo e accetto che la sua narrazione si sia in me tanto logorata da renderlo inutile. Può essere il destino strano di certe Viae crucis che si aprono e chiudono nel ripetersi già conosciuto di un “copione” rituale, estenuato e pressoché inutile.
Nessuna delega e nessuna insipienza.
Certo non posso portare il dolore del mondo, ma non me ne posso chiamar fuori. Ho bisogno di dare senso all’umano e non solo di invocare lo stato di eccezione rispetto alla mia pace e al mio perimetro. Ne va della mia umanità, ancora una volta chiamata ad allenarsi a riconoscere, a cogliere ogni radice recisa, ogni voce di fratello. Sicuramente – e non serve uno stratega geopolitico – il conflitto ucraino produrrà una scelta precisa e chiara: nuovi armamenti, nuove politiche militari, nuove spese belliche, accanto a nuovi sospetti e a saturazioni europee che impediranno ai non europei di chiedere financo aiuto. La Germania, uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale, ha già deciso di invertire la tendenza di bilancio a favore di nuove dotazioni militari. E c’è da scommettere che presto lo faranno tutti gli altri stati, confermando una spirale che sposta sempre il problema, lo elude o peggio, lo strangola a danno di chi non è né visibile né politicamente rilevante.
È il destino di accoglienze miopi, di emotività comunicative spinte all’eccesso che consumano le cose e le rendono impalpabili, mentre logorano chi osserva. Lo ricorda tremendamente bene Byung Chul Han nell’ultimo suo testo Le non-cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, dove il “non” è generato dal flusso di informazioni che smaterializza il reale e lo serve nelle insopportabili dirette tv, nel trillare isterico dei gruppi di whatsapp, nei post frenetici delle “mie” cose che diventano per forza di tutti, ovvero di nessuno (l’ultimo piatto gustato al ristorante). E nel frattempo le radici recise restano, sanguinanti, in zone per noi remote che osiamo affidare al destino o ad una provvidenza “minore”.
Ma se non colgo, che valore avrà il mio accogliere?
LETTURE
Stranieri a noi stessi
Julia Kristeva, in uno dei suoi libri più belli e appassionati, affronta tali domande alla loro radice più profonda. Questo volume è dedicato a chi vive la propria esistenza da straniero, ma anche a tutti coloro che degli stranieri non ne possono più, e infine a chi non può evitare di sentirsi straniero anche a casa propria…
Le non cose di Chul Han
«Non abitiamo piú la terra e il cielo, bensí Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa sempre piú inafferrabile, nuvoloso e spettrale».
Abbiamo perso il contatto con il reale. È necessario tornare a rivolgere lo sguardo alle cose concrete, modeste e quotidiane. Le sole capaci di starci a cuore e stabilizzare la vita umana.