giochi
N.30 Aprile 2022
Con una mano di “Uno” in pediatria si batte la paura
Grazie ai volontari della "Associazione per il bambino in ospedale" i piccoli pazienti della pediatria ritrovano il sorriso. Perché il gioco – anche in corsia – «non ha mai bisogno di parole difficili»
«Scontri epocali ad “Uno”, battaglie infinite al calcio balilla, cibi pronti dopo lunghi pomeriggi insieme alla cucinetta. Cerchiamo di entrare in sintonia con i più piccoli: ci vogliamo mettere alla loro altezza. Vogliamo ragionare con la loro libertà di pensiero». La presidente di Abio Cremona (Associazione per il bambino in ospedale) Filomena Martone ci attende nella sala giochi del reparto di pediatria dell’ospedale. «I bimbi ci insegnano ad accettare le situazioni in modo semplice, senza sovraccaricarle di mille pensieri. Parlare con loro significa instaurare un dialogo animato dalla semplicità, dall’affetto, dalla tenerezza».
Due volontarie, Elsa ed Antonella, sono all’opera per riordinare lo spazio, affinché risulti accogliente. «Il gioco è una modalità di relazione. Lo adottiamo per aiutare i bambini a vivere il momento dell’ospedalizzazione in modo meno traumatico. Siamo gratificati quando i più piccoli si dimenticano di essere pazienti e tornano in questo spazio pieno di giochi ad essere semplicemente bambini. Con i loro occhi, il loro desiderio di sperimentare, di giocare, di vivere». Oltre il ritmo dell’ospedale, i gelidi termini della medicina, le distanze imposte dal virus, la quotidianità di un mondo, quello ospedaliero, scandito da visite, esami, controlli. E paure.
Così Abio rompe la routine e, anche tra quattro mura tanto sconosciute quanto anonime, regala colori, abbracci (questi rigorosamente prima del Covid-19) e sorrisi. Anche a prova di mascherina. «Oggi ridiamo con gli occhi: lo sguardo fa la differenza. Racconta mondi, pensieri e conferma che ciascuno di noi è unico. Anche i bambini lo sono, ciascuno ha la propria personalità». C’è quello spavaldo che prova ogni gioco, quello timido che chiede permesso, quella che preferisce giocare da sola o quelli che fanno comunella. «Nella vita di un bambino il gioco è una costante. È il modo per conoscersi ed un alleato contro la malattia». Si nasconde in ogni angolo, «in ogni sguardo rivolto con gli occhi sinceri di un bambino».
È lì che, oltre la sofferenza, si capisce che «la felicità è fatta di piccole cose». Di manine che stringono con forza per non lasciare andare via, di occhi luminosi dopo la tempesta. E sì, anche di esultanze trionfali dopo aver stracciato mamma e papà ad una partita a Uno. «Durante il periodo Covid abbiamo completamente interrotto la nostra presenza in reparto. Abbiamo provato a far sentire comunque vicinanza ai piccoli degenti attraverso delle attività smart e dei kit d’accoglienza», ma la verità è che «siamo stati colpiti al cuore di ciò che siamo: vicinanza, presenza, ascolto anche dei genitori. I volontari Abio hanno orecchie grandi ed una bocca piccolissima e giocano guardandosi in faccia». Magari anche a distanza, certo, ma occhi dentro occhi.
Elsa ed Antonella si sostengono a vicenda. Per restare in tema, fanno gioco di squadra. «Noi siamo qui per giocare. Niente di più». Indossano una pettorina con sopra l’orso Fabio, la mascotte di Abio. Fanno capolino nelle stanze con discrezione. Si presentano, ascoltano e lasciano decidere ad ogni bambino cosa fare. «In ospedale – interviene la presidente – un bambino deve affidarsi alle scelte dei medici e dei genitori. Nel gioco con noi deve poter tornare ad essere protagonista. Ad essere libero».
Elsa gioca con i bambini da vent’anni. «Non so dire con precisione perché. So cosa mi lascia, ma non lo riesco ad esprimere a parole. Lo avverto sottopelle e mi fa stare bene. In fondo giocare non è una cosa difficile, non merita parole difficili. Quando siamo qui siamo con i bambini che giocano in cucina, o con quelli che preferiscono le carte e le macchinine. Senza differenze. Il gioco è per tutti. Il gioco non discrimina. E sia ben chiaro: non esistono giochi per maschio o giochi per femmina. Ognuno deve poter giocare con ciò che vuole». La felicità passa anche da lì: dalla possibilità di essere se stessi. «Felicità poi è un bambino che lascia un messaggio per salutarci dopo averci incontrato una sola volta. Il nostro rapporto con i piccoli non dura molto».
Dura il tempo necessario per lasciare il segno. Per trovare un alleato anche tra quei corridoi che fanno paura. Da fuori. «Ho capito che stavo facendo un buon lavoro quando una bambina, al termine del momento di gioco prima della cena, ha detto al papà che l’ospedale era come una spa». Ci vuole l’immaginazione di un bambino e la capacità di vedere il bello ovunque. Anche in ospedale, negli hub vaccinali o negli ambulatori dove Abio presta servizio. E «nel gioco, soprattutto. Il gioco è una cosa semplice» riprende Martone. «Offre un osservatorio privilegiato perché parla a tutti: unisce, abbracciando le differenze culturali e sociali e aiuta anche gli adulti a capire che abbiamo sempre da imparare. Che siamo sempre in viaggio». E si viaggia meglio se in valigia teniamo sempre l’entusiasmo di un bambino.