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N.20 Aprile 2021

RUBRICA

Il rumore di un film
nello scorrere del suo tempo

Tra le foto di scena di un film di Fellini e i "teatri" brillanti di Hiroshi Sugimoto

Per chi è nato nell’era analogica, clic era il rumore lieve ma preciso dello scatto fotografico; un suono atteso da chi era in posa davanti all’obiettivo con le orecchie pronte a recepire il momento in cui poter finalmente rilasciare un’espressione contratta, mantenuta a lungo per affidarla, forse per l’eternità, al lavoro della luce e alla sua fissazione su carta. Diverso era il rumore del cinema: un ronzio prolungato, oggi trasformatosi in un effetto da aggiungere ai video amatoriali, che corrispondeva al suono della pellicola che scorreva negli ingranaggi del proiettore. Due suoni che identificavano due mezzi, e soprattutto due temporalità diverse: mentre la fotografia coglie l’attimo, il cinema è, propriamente, una somma di attimi che si strutturano nel tempo. Il cinema, un tempo chiamato fotografia animata, è la fotografia del movimento, al ritmo (analogico) di 24 fotogrammi al secondo.
In realtà i punti di incontro tra queste due arti sorelle sono numerosissimi sia nella tecnologia, come nelle figure professionali, nei temi e nelle storie che scorrono davanti all’obiettivo.
Qui vorrei accennare a due occorrenze – entrambe eccezionali, in qualche modo “fuori misura” – che problematizzano questo rapporto.

La prima si riferisce alla fotografia di set o di scena. Fin dai primi anni, durante le riprese dei film sono presenti dei fotografi i quali immortalano ciò che viene girato oppure il set. Nel primo caso l’immagine – propriamente una foto di scena – tende ad essere il più fedele possibile a un fotogramma del film, e viene di solito utilizzata per fini pubblicitari (dalle fotografie condivise con la stampa a quelle impiegate per locandine e manifesti). Nel secondo caso, la foto di set allarga lo sguardo dalla ripresa cinematografica a tutto ciò che avviene intorno ad essa: il set, le macchine, il regista e gli attori colti magari in pause di lavorazione, i macchinisti, le luci, ecc. Entrambe queste tipologie di immagini pongono problemi allo statuto dell’immagine fotografica stessa.
Nella foto di scena, che ha come scopo quello di restituire ciò che la macchina da presa inquadra, il paradosso è dato dal fatto che la fotografia non è mai perfettamente sovrapponibile all’immagine cinematografica: o perché l’apparecchio fotografico si colloca nei pressi della cinepresa (non può trovarsi ‘al posto’ della cinepresa), oppure perché la fotografia ‘è posata’, ossia viene scattata durante un momento che simula la ripresa cinematografica, con l’apparecchio fotografico collocato al posto della cinepresa.
Nella fotografia di set l’aspetto problematico è un altro: vediamo attori, macchine, maestranze, registi al lavoro ma perdiamo di vista il contenuto del film. Anche l’immaginifico set di 8 ½ di Fellini (1963), ad esempio, immortalato dalle suggestive fotografie di uno specialista come Paul Ronald, non riescono a mostrare il film 8 ½, ma solo il suo contorno. Una sensazione che si prova anche osservando gli scatti di Rodrigo Pais sui set di altri film di Fellini o di pellicole interpretate da Alberto Sordi, oggetto di mostre digitali offerte dalla Biblioteca Universitaria di Bologna.
E tuttavia proprio questo è il motivo per cui le immagini di scena e di set non smettono di incuriosirci e di piacere. Sono immagini intriganti perché rinviano al ‘problema’ cui cerca di rispondere la fotografia: fermare il tempo, scomporlo in unità così piccole da poter essere catturate.

Con un brusco cambiamento, spostiamoci ora nel campo della fotografia artistica contemporanea.
Tra i grandi maestri, un posto di rilievo spetta a Hiroshi Sugimoto, originario di Tokyo, poi attivo come fotografo tra il Giappone e gli Stati Uniti, promotore di un minimalismo memore della tradizione orientale sostenuto da una costante riflessione che rinvia all’arte concettuale. Sugimoto opera attraverso serie di fotografie che sviluppano variazioni intorno a un tema comune. Una di queste serie, che ha preso il via alla fine degli anni Settata, si intitola Theatres: si tratta di scatti realizzati all’interno di sale cinematografiche con una macchina di grande formato in posizione frontale che dà sullo schermo senza nessun’altra illuminazione. Come racconta lo stesso autore: «Una sera, mentre scattavo fotografie al Museo Americano di Storia Naturale, ho avuto una visione quasi allucinatoria. La serie di domande e risposte che mi ponevo per mio conto è stata più o meno questa: “Supponi di girare un intero film in un singolo fotogramma?” La risposta è stata: “Hai uno schermo brillante”».

Negli scatti di Theatres, Sugimoto apre il diaframma all’inizio del film e lo chiude alla fine. In questo modo racchiude in una sola immagine – il cui scatto dura 90 minuti o più – tutto il film: uno schermo brillantissimo riflette, nell’oscurità della sala, la memoria del tempo lungo della proiezione. Lo scatto ottenuto, che racchiude in sé l’incanto e la meraviglia della permanenza di fotogrammi fuggevoli, diventa un clic prolungato, dilatato nel tempo, metafora della relazione tra istante e durata, tra immagine fissa e in movimento, tra pienezza e vuoto, tra visione e percezione.
Il cinema, accostato alla fotografia, le ricorda che dietro a ogni clic c’è un rapporto con il tempo, ma anche con lo spazio e con il modo in cui la realtà si trasforma continuamente davanti ai nostri occhi.