strappi

N.62 settembre 2025

rubrica

Strappo o rattoppo?

Pellicole danneggiate e director's cut, tutte le vite di un film di fronte al dilemma del "taglio": ricucire o mostrare

I più maturi tra i lettori ricorderanno certamente il cinema in pellicola, non solo per la straordinaria grana dell’immagine, ma anche per gli inconvenienti a cui si prestava durante la visione in sala: bobine scambiate (con inizio del film dal terzo tempo), disturbi all’audio e, non di rado, strappi o tagli alla pellicola. E, per fortuna assai più raramente, incendi. Nonostante Walter Benjamin parlasse – a proposito dei media novecenteschi – di opere caratterizzate da un’infinita e identica “riproducibilità tecnica”, da un punto di vista squisitamente filologico possiamo dire che raramente gli spettatori abbiano visto proprio lo stesso film dal momento che la pellicola, soggetta a usura, oppure maltrattata da operatori frettolosi o ancora da censori scrupolosi, veniva sistematicamente violata, al punto da non rendere identiche (spesso) due visioni successive della medesima bobina.

Di là dagli inconvenienti tecnici, che mettono in luce la fragilità del film e impongono sempre più spesso il restauro fisico o digitale di opere anche recenti, ossia realizzate 30 o 40 anni fa, gli strappi, sotto forma di lacerazioni, buchi o mancanze, a volte acquisiscono un significato teorico e autoriflessivo se tematizzati a livello drammaturgico. È il caso di un film affascinante quanto complesso come Persona (1966) di Ingmar Bergman nel quale la forma della scrittura si sposa con il contenuto. Nell’esplorare l’identità di due donne che gettano la maschera di una rispettabilità sociale costruita attraverso i reciproci ruoli di attrice e infermiera, il film affida a una scenografia estremamente stilizzata il compito di offrire un correlato oggettivo rispetto all’evolversi della loro comprensione di sé e della loro relazione. Così in alcuni momenti è una pellicola a scorrere sullo sfondo, come in un immaginario schermo del pensiero. E a un certo punto si deteriora, si strappa, esattamente come la loro vita. Che richiede un altro tipo di cura per essere ricucita, magari solo rattoppata.

(fotogrammi del film Persona, di Ingmar Bergman, 1966)

Oltre all’aspetto materiale della pellicola, e a quello metaforico relativo a ciò a cui il film rimanda in quanto finzione, messa in scena, c’è un’ulteriore dimensione a cui si può ricondurre l’idea dello “strappo” nel cinema che investe la figura dell’autore. Non si contano, nell’intera storia della settima arte, i casi di scippi, tagli, strappi inferti agli autori dai produttori o dal mercato. Ciò accade perché lo statuto dell’autore cinematografico è problematico, dal momento che il film è frutto di molti apporti (sceneggiatori, direttori della fotografia, attori, montatori…), e solo in tempi piuttosto recenti l’autore è stato identificato inequivocabilmente con il regista. Basti citare le ripetute schermaglie di Orson Welles con i produttori che hanno portato in alcuni casi alla “correzione” dei film girati dal regista e alla soppressione di un numero cospicuo di inquadrature: L’orgoglio degli Amberson (1942) fu mutilato di ben 43 minuti e proiettato negli Stati Uniti con un finale diverso, più positivo e adatto ai tempi bui della guerra. Oppure si pensi al caso de Il disprezzo (Le mépris, di Jean-Luc Godard), massacrato nell’edizione italiana che venne addirittura disconosciuta dall’autore.

Che fare davanti a questi strappi così decisi, e a volte brutali?

La fabbrica del cinema ha fortunatamente sviluppato la pratica del restauro: un accurato e paziente lavoro di studio e di ricostruzione delle pellicole a partire da tutti i documenti sopravvissuti, cercando di rispettare le intenzioni dell’autore. Non è sempre facile con i film del passato, sia per la mancanza di testimonianze e fonti, sia perché le sequenze scartate spesso non si sono conservate. Al contrario, per film più recenti, è invalso l’uso di dare una seconda vita alle opere  – spesso nel mercato dell’home video – riproponendole con delle varianti, come sequenze inedite o con il cosiddetto director’s cut. Caso celeberrimo al riguardo è quello di Blade Runner di Ridley Scott (1982) di cui si sono moltiplicate le versioni a partire da quella uscita in sala. Se già la distribuzione internazionale nel 1982 ne aveva ampliato leggermente la durata, con alcune scene censurate negli States, a dieci anni di distanza il film è nuovamente uscito sotto l’egida di un director’s cut che ha incluso alcune scene tagliate e la modifica del finale (nel quale venivano insinuati alcuni dubbi sull’identità del protagonista).

Nel 2007, infine, è stata distribuita la versione the final cut del film, l’unica supervisionata dallo stesso regista, che tuttavia non presentava modifiche sostanziali, oltre al restauro digitale del suono e dell’immagine.

Tutte queste versioni hanno indubbiamente allungato la vita di un film-capolavoro come Blade Runner, vero e proprio cult per diverse generazioni di spettatori. Ma dietro alla passione cinefila e alla ricerca maniacale del dettaglio, sono state veicolate da ragioni di mercato, volte a vendere e rivendere il prodotto-film costruendo ogni volta un nuovo valore e commercializzandolo per fini di profitto.

Ma, tornando all’esempio, c’è una domanda che sorge di fronte a questa mole di versioni tagliate, strappate e ricucite: qual è la “vera” versione di Blade Runner e, più in generale, di un film? L’ossessione di mascherare lo strappo, di ricostruire un’idea astratta di pellicola come “originale” cozza con la storia della sua circolazione, e con il modo in cui gli spettatori ne sono venuti in contatto. In altre parole: è più “vero” il film che è storicamente circolato, o quello progettato, realizzatosi solo nella mente del regista?

Di fronte a questo interrogativo ai produttori, distributori e soprattutto ai restauratori si aprono due opzioni: una è quella di nascondere lo strappo, il taglio, la rovina e la cesura attraverso pratiche di “rattoppo”, di ricostruzione invisibile o fittizia di una presunta originalità. L’altra è, evidentemente all’opposto, quella di “mostrare” il taglio, la differenza, la rovina, nella consapevolezza che le vite del film sono plurali. Una vita è quella della versione circolata nelle sale, mentre l’altra è quella del film immaginato, pensato, girato ma non circolato. In ultima analisi, è però la maggiore o minore maturità del pubblico a spingere il mercato verso l’una o l’altra soluzione.