strappi
N.62 settembre 2025
Anita e la scoperta del kintsugi, l’arte di riparare tazze (e vite) con polvere d’oro
Anita Cerrato ha aperto un laboratorio in cui ripara oggetti rotti con la tecnica giapponese del kintsugi. Una tecnica antica e ricca di significato cheoggi è diventata anche un lavoratorio che cura per vite spezzate nella Breast Unit dell'ospedale di Brescia

Come avrà fatto a rompersi quella tazza da té? Proprio la più preziosa, la preferita!
La leggenda non lo narra e, ognuno, può tornare con il pensiero a quando inavvertitamente ha fatto scivolare dalla tasca il cellulare o dalle mani un piatto appena estratto dalla lavastoviglie.
E cosa avrà esclamato lo shogun Ashikaga Yoshimasa vedendo l’amato oggetto andare in mille pezzi? Avrà davvero mantenuto la calma che possiamo leggere sul suo viso nelle rappresentazioni del XV secolo?
Convocato immediatamente un sottoposto, gli affidò i preziosi cocci raccomandandogli di trovare il miglior artigiano di tutta la Cina. Ma, quando dopo parecchi mesi, ricevette l’oggetto ricomposto, non poté mascherare il proprio disappunto: degli orribili gancetti metallici provavano a ricomporre ciò che ormai sembrava irrimediabilmente perduto.
Con la tenacia che lo contraddistingueva in battaglia, Ashikaga Yoshimasa si rivolse ai migliori ceramisti giapponesi. Nacque così una nuova tecnica di restauro, il kintsugi, che prevedeva l’utilizzo della lacca urushi ed una preziosa finitura di polvere d’oro, distribuita sulla colla utilizzata per la riparazione.
Non vanno in frantumi solo le tazze da tè, ma anche le vite. Come quella di Anita Cerrato che, nonostante passione e competenza, non riusciva a sostentarsi con il proprio lavoro di restauratrice di cornici. «Era il 2010 e la mia professione sembrava arrivata ad un punto morto. Pensai così di utilizzare i fogli d’oro, che adoperavo durante i restauri, per decorare delle ciotole. Inserii in un motore di ricerca su internet due parole che si rivelarono fatidiche: “tazze” e “oro”. Apparvero sullo schermo pochissimi risultati ma, uno di essi, parlava del kintsugi. Nonostante ne trattasse come metafora, e non come di una precisa tecnica, rimasi completamente affascinata».

Girando biblioteche e chiedendo ad artigiani, la restauratrice prova a reperire altre informazioni, ma non riesce a scoprire altro. Sta per essere vinta dallo sconforto, quando suo marito le mostra due biglietti per il Giappone: «Andiamo a imparare il kintsugi!», esclama.
«Non fu facile perché i maestri ceramisti ti accettano come allievo solo se vieni presentato da una persona di fiducia e, oltre a ciò, non parlano inglese. È stato un percorso impegnativo ma oggi, a distanza di dieci anni, posso dire che il kintsugi ha fatto… kintsugi alla mia vita», scherza Anita.
Ma chi è disposto a spendere cifre non banali per riparare una tazza rotta? «È la stessa domanda che posi a mio marito prima di lanciarmi sul mercato. In effetti si tratta di un’attività che possiamo definire di “stra-nicchia”», ammette senza esitazione. «La maggior parte degli oggetti che arrivano nel mio laboratorio (Intsu handmade) non hanno un valore economico, ma affettivo. Sono appartenuti alla madre o alla nonna e, le persone che si rivolgono a me, sono disposte a spendere anche 200 euro per la riparazione. Evidentemente, attraverso percorsi misteriosi, quella ceramica si è caricata dell’energia di chi l’ha posseduta».
Dopo un attimo di riflessione, un sorriso appare sul viso di Anita. «Ricordo un ragazzo che mi aveva portato una tazza di Tigro (personaggio della saga di Winnie the Pooh) in frantumi, chiedendomi che tornasse come prima. Era un oggetto del valore di pochi euro, rotto in seguito ad un litigio avvenuto con la fidanzata. Un ricordo doloroso, legato alla separazione e al desiderio di tornare insieme. La richiesta di riparare la tazza aveva un valore simbolico che andava molto oltre quello materiale».
Dopo aver ascoltato i suoi racconti e tornando alle origini del percorso artistico della restauratrice milanese, si ripropone alla nostra mente la potenza del kintsugi come metafora. Un’energia tanto dirompente da essere diventata, da qualche anno, un significativo ingrediente di numerosi percorsi di cura e rinascita.
Anita infatti porta avanti un’intensa attività pro bono, avviata quasi per caso nel 2018. «Mi aveva contattato la Breast Unit dell’ospedale di Brescia proponendomi di tenere un laboratorio di kintsugi. Nonostante non mi sentissi all’altezza della richiesta, decisi di andare, motivata anche dalla recente perdita di una cara amica».
L’esperienza, grazie anche alla presenza di una bravissima psiconcologa e di un affiatato gruppo di volontari, va talmente bene da diffondersi ampiamente, in breve tempo. «Sta diventando una vera e propria metodologia e, molto presto, uscirà anche un libro che ne parla», aggiunge Anita animata da una passione inestinguibile.
La prima fase del laboratorio è la rottura dell’oggetto, solitamente una tazza o un piccolo piatto. Un gesto che simbolicamente può rappresentare l’incidente stradale, il tumore, gli anni di soprusi subiti… «Chiedendo poi ai partecipanti di individuare, nella propria esperienza, quale sia stata la “colla della vita” che gli ha permesso di ripartire, spiego come applicare la lacca necessaria per procedere con la riparazione». L’ultimo passaggio è la doratura.
Quando, al termine del laboratorio, le persone tengono in mano i propri oggetti, si rendono conto che non li hanno solamente riparati, ma quasi ricreati. «Sono partiti tutti dallo stessa tazza – racconta Anita celando appena l’emozione – e, alla fine, si rendono conto che quelle ciotole sono diventate tutte diverse, perché la rottura e la riparazione le hanno rese dei veri e propri pezzi unici. Proprio le differenze, specialmente riconosciute in dolorosi percorsi di consapevolezza, ci rendono unici e preziosi».
Con questa riflessione, che ci lascia un groppo alla gola, Anita ci saluta. Mai avremmo pensato di arrivare fino a questo punto e, sicuramente, non se lo immaginava nemmeno lo shogun Ashikaga Yoshimasa il giorno in cui, disgraziatamente o fortunatamente, mandò in frantumi la sua tazza da té.