eroi
N.18 Febbraio 2021
Al papà, il solo avventuriero nel mondo
Inno d'amore al papà «perché ci vuole coraggio a mettere su famiglia»
Esiste un solo avventuriero al mondo: il padre di famiglia.
Quando si parla di eroi vien subito da pensare ai grandi miti classici (Ulisse, Achille, Agamennone, Ettore, Ercole) o a quelli che hanno popolato la nostra infanzia: da Zorro a McGyver (per i più datati) ai super eroi della Marvel o delle grandi saghe di Star Wars. Eppure, senza retorica, a popolare i disegni di quand’ero bambina non erano (solo) loro, ma anche e soprattutto mio papà. E anche adesso che i miei due bambini iniziano a pastrocchiare sui fogli linee a me incomprensibili, quando gli si domanda “cosa sono?” la risposta è sempre: “papà e mamma” (ogni tanto ci infilano dentro qualche cane, giusto perché i segnali chiari vanno mandati subito).
Papà, perché il vero eroe è lui. Papà, perché ci vuole coraggio a scegliere di mettere su famiglia quando il mondo intorno vorrebbe solo relazioni fugaci “e senza problemi” (dove il problema sarebbero i figli). Ci vuole fegato a scommettere tutto su un futuro che si prospetta incerto e pieno di incognite. Ho perso mio papà che avevo 19 anni, ma ricordo come fosse ieri quando la sera tornava stanco dal lavoro, eppure non si lasciava mai scappare un lamento per i pesi – ed erano tanti – che doveva portare.
Arrivare a fine mese è stata spesso un’ impresa per i miei, che di figli al mondo ne avevano messi addirittura tre e altri ne avevano accolti in affido. Eppure non li ho mai sentiti rimpiangere o rinnegare nulla. Erano grati perché un piccolo miracolo si compiva nelle giornate, un’avventura di bene e provvidenza che si allargava giorno dopo giorno nonostante i limiti, le fatiche, i peccati di ciascuno.
Mio papà non avrebbe potuto essere il nostro eroe se accanto non avesse avuto la mamma, questo è certo. Insieme hanno costruito una squadra eccezionale (altro che “Incredibili”) perché capace innanzitutto di perdonare, e su quel perdono di costruire. Così il disordine cronico, i soldi che non bastavano mai, le incertezze sul lavoro, le malattie, le litigate di noi fratelli, le difficoltà a scuola non sono mai stati obiezione o scandalo. Alla sera potevamo sempre contare sulla voce sicura di un padre che, mentre ci raccontava storie e avventure fantastiche, ci diceva in fondo che qualunque cosa fosse successa, lui ci sarebbe stato. Che lui e la mamma ci sarebbero stati, perché il loro volersi bene, la loro unità veniva prima di tutto. Perfino prima di noi figli, e meno male che è stato così. Così, oggi che lui non c’è più, io so che continua a tenerci una mano sulla testa dal cielo e tramite le braccia della mamma. E quello che ho imparato da lui lo vivo nella mia nuova famiglia.
Guardo mio marito e penso che sono la donna più fortunata del mondo. Perché trova il tempo di giocare con i bambini anche quando la giornata al lavoro è stata dura, anche quando è triste, anche quando la stanchezza farebbe venir voglia di buttarsi sul divano e non alzarsi più. E ci indica sempre le cose belle, in tanti piccoli dettagli quotidiani (la scelta di un quadro, il colore della cucina, una piantina da aggiungere al nostro giardino). Non per vezzo, ma perché sa che è dalla bellezza che possiamo continuamente imparare, grandi o piccini. A volte ha il compito ingrato di sgridare, di richiamare all’ordine, di correggere e sorreggere e anche in questo il suo compito è arduo. Perché non è facile educare, tirar grandi i figli, portare sulle spalle la responsabilità di altre vite e al contempo rimanere fedele alla promessa fatta tanti anni prima.
È l’eroismo del quotidiano. Non ci sono macchine da sollevare con un dito, ma ginocchia sbucciate da disinfettare e pianti notturni da consolare. Non ci sono principesse da liberare nella torre del castello, ma pannolini da cambiare e bollette da pagare. Non ci sono bacchette magiche, ma rospi da mandare giù mentre i capelli ingrigiscono e i figli crescono. Ogni tanto, alla sera, sogniamo di prenotare impossibili vacanze alle Maldive ma – al fondo – sappiamo che non baratteremmo la nostra vita con una settimana al mare per nulla al mondo.
Penso a mio papà, guardo Andrea crollare a letto stanco dopo aver messo a dormire i bambini e mi torna alla mente uno dei brani più belli che io abbia mai letto. Lo scrisse Charles Péguy, nel suo Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale.
Il grande scrittore francese scriveva così: «C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun pericolo, al suo confronto. Tutto nel mondo moderno, e soprattutto il disprezzo, è organizzato contro l’uomo che osa fondare una famiglia. Tutto è contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conseguenza contro la famiglia stessa, contro la vita di famiglia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura», scriveva Péguy. Naviga in mare aperto, deve condurre la nave tra mille pericoli, sa che deve soffrire e che deve lottare per consegnare alla moglie e ai figli un porto sicuro, una città migliore, un avvenire grande e bello. Sa che si dovranno attraversare insidie, che la morte è una variabile esistente, sa che a volte potrà sentirsi solo. Ma, scrive ancora Péguy, “il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna la sua vita infinitamente di più nella destinazione del mondo. Ed è un pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi o gravato dal peso delle responsabilità. Perché è padre di famiglia. Ma è un avventuriero che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; il tessuto stesso della vita, la trama e l’ordito, il pane quotidiano”.