casa
N.17 Gennaio 2021
«Abitare è essere ovunque a casa propria»
Poesia e provocazione nell'arte di La Pietra che ne "La riappropriazione della città" invita a riconoscere negli spazi che abitiamo luoghi di espressione, conoscenza, conquista
La riappropriazione della città è un cortometraggio realizzato da Ugo La Pietra nel 1977 per il Centre Pompidu. Il titolo, che suona come un programma vagamente utopico e astratto, si fa più chiaro fin dalla prima inquadratura quando La Pietra, ripreso in primo piano mentre si fa la barba, si gira verso la macchina da presa ed esclama: «Abitare è essere ovunque a casa propria». Subito la camera allarga fino a scoprire la figura del protagonista che, in vestaglia, si specchia in una grande porta a vetri, collocata – in modo del tutto inatteso – sul marciapiede di una strada trafficata.
Si tratta di un invito che ai meno giovani ricorda il celebre Carosello dell’amaro Cynar in cui Ernesto Calindri concludeva le sue avventure seduto a un tavolino posto in mezzo al traffico cittadino, intento a sorseggiare il liquore «contro il logorio della vita moderna».
Più precisamente, lo slogan riprende un testo dell’Internazionale Situazionista, celebre movimento artistico e di pensiero diffuso in Europa negli anni Sessanta, volto alla trasformazione di eventi, situazioni e pratiche estetiche in senso sociale e politico. Per Ugo La Pietra, architetto, designer, artista poliedrico, sostenitore di “un’arte nel sociale”, il motto «abitare è essere ovunque a casa propria» è la sintesi di un pensiero ampio e articolato che da sempre pone al centro lo spazio urbano. Un motto che nel film ritorna quasi come un’introduzione alle diverse sequenze.
Abitare, etimologicamente “tenere” (habere, habitare), stare per un lungo tempo, dimorare, è un’azione normalmente connessa alla casa, al privato, a una dimensione intima e familiare. La Pietra decostruisce questa associazione così inveterata e si interroga sulle possibilità (e sulle modalità) di rendere casa anche l’esterno, la città, lo spazio comune.
Non a caso la sua osservazione inizia dalla periferia, in una sorta di baracca circondata da numerose altre costruzioni improvvisate che lambiscono fazzoletti di terra divenuti orti mentre sullo sfondo si staglia un condominio popolare. Qui l’autore individua numerose pratiche creative e libere di “recupero e reinvenzione” dello spazio messe in atto da persone che utilizzano materiali di scarto per dar vita a nuovi oggetti (un innaffiatoio da una latta arrugginita, una sorta di rastrello ottenuto con pezzi di legno e chiodi, pallet che diventano assi per delimitare rifugi…) che rispondono ai loro bisogni. Uno spazio marginale, libero perché privo di una progettazione imposta dall’alto, viene colonizzato da decine di persone che, probabilmente inurbate di recente, in modo disordinato ma libero e fantasioso “costruiscono” una sorta di appendice della casa, coltivando verdure in piccoli appezzamenti circondati da palizzate e baracche a cielo aperto.
La macchina da presa, assecondando le parole dell’autore, si muove con lenti zoom avanti e indietro, dal particolare a una pluralità di esempi; ma l’inquadratura è sempre disturbata dal traffico di macchine che sfrecciano, offuscando parzialmente la visuale, o presente come rumore di fondo. Come a dire che creatività, riutilizzo di spazi, coltivazioni sono la reazione a un processo di crescita esponenziale della mobilità, in particolare su ruota, e dell’utilizzo dello spazio per costruire vie di comunicazione.
Attraverso immagini fisse di lucchetti, catene, ringhiere, introdotte dal cartello «vietato entrare», La Pietra annota come l’occupazione (creativa) del territorio sviluppi anche un esasperato senso di proprietà: l’«essere ovunque a casa propria» in questo caso significa la conquista di uno spazio in più.
Senza sciogliere la contraddizione, l’autore sembra proporre, nella parte successiva del film, un’alternativa più astratta e incruenta: quella di un percorso mentale che si dipana da un’immagine codificata, una cartolina, fino a una nuova attribuzione di senso da parte degli individui: l’immagine della stazione centrale («la stazione») viene seguita da un cortile in cui una donna anziana si sposta, mentre l’autore-protagonista accende la macchina ed esce, commentando «la mia stazione»; e allo stesso modo si susseguono la piazza, la galleria, la cattedrale, la vetrata, il parco, la cantina, la fontana, il teatro, il panorama.
Quell’effetto di straniamento che sortivano gli scatti di Luigi Ghirri di porta-cartoline ricolme di immagini stereotipate, qui viene affiancato dalla proposta di itinerari personali, quasi esercizi per riconfigurare la propria immagine della città: come dice nel film lo stesso La Pietra, «occorre cercare la forma che nasce dalle nostre esperienze invece che dagli schemi imposti».
Nella terza e ultima parte l’itinerario si fa ancora più astratto: a una cartina della città l’artista sovrappone un grande foglio di carta lucida, sul quale invita gli spettatori a tracciare dei punti e a collegarli poi come degli itinerari: si può identificare così «la vostra città dell’informazione», ottenuta collegando tutti i punti dove «avete usato il telefono, collegando tutti i luoghi dove avete avuto delle informazioni, collegando tutti i luoghi dove avete lasciato dei messaggi, collegando tutti i luoghi dove averte guardato la televisione, collegando tutti i luoghi che avete documentato con la macchina fotografica, con la cinepresa o con il videotape», e allo stesso modo la città degli itinerari, dei monumenti, e ancora «la città della vostra mente», ottenuta «collegando tutti i luoghi dove avete percepito e memorizzato eventi emozionali».
Infaticabilmente La Pietra attraversa Milano, mostrandoci i suoi luoghi, divenuti “segnali” soggettivi nello spazio, mentre la musica – composta e interpretata dall’autore – qui amplifica il vissuto personale ed emotivo del soggetto che si riappropria dello spazio del vivere, forse in questo modo conoscendosi meglio.
Un invito che proviene forse da un’altra epoca, priva di geolocalizzatori, di google maps e di telefoni cellulari, ma che da un bianco e nero elegante non smette di interpellarci, nello spirito di quell’arte “nel sociale” che ha a cuore la costruzione della comunità.
«Abitare è essere ovunque a casa propria» è un mantra che arriva intatto, con tutta la sua forza di provocazione, all’odierno “popolo della rete”, a ricordare che abitare lo spazio – anche virtuale – significa identificare delle mappe personali per orientarci e per renderci familiari dei punti di riferimento. Sono i luoghi che abitiamo – case, spazi urbani, siti in rete – a rivelarci qualcosa di noi stessi, a dirci anche un po’ chi siamo.