mode
N.08 Febbraio 2020
Come uno scarabeo sulla schiena
Viaggio nel fenomeno hipster con I Tenenbaums dietro la lente (e dentro la mente) di Wes Anderson
«Uno scarabeo sulla schiena». È la definizione di hipster data da Anatole Broyard nel 1948, in uno dei primi saggi sul tema. Un essere che, nonostante lotti per rimettersi diritto, viene mantenuto in questa posizione dalla legge di gravità umana ed è perciò condannato a trovarsi sempre controcorrente. Inizialmente riferito agli appassionati di jazz e bebop, poi passato a designare la generazione “on the road”, il termine è usato da qualche decennio per indicare persone stravaganti e dagli abiti fuori moda, apparentemente incuranti del giudizio altrui.
Per l’Accademia della Crusca hipster è «un giovane tendenzialmente disinteressato alla politica e con velleità fortemente anticonformiste, che si riconosce per atteggiamenti stravaganti e abbigliamento eccentrico e variopinto».
Divenuta un fenomeno di tendenza dall’ultimo scorcio del ‘900, l’hipsteria è oggetto di mostre fotografiche e convegni mentre la bibliografia si arricchisce sempre più dai tempi di The Hipster Handbook di Robert Lanham (2003).
Oggi le barbe lunghe e i baffi curati, le camicie di flanella a quadri o a righe, le scarpe di giovani indifferenti alla moda sono così mainstream, soprattutto nei quartieri delle grandi capitali del mondo dove sono in corso processi di gentrification, da non suscitare più alcuna meraviglia.
Il cinema ha contribuito in maniera decisiva a definire un immaginario hipster attraverso personaggi eccentrici e disfunzionali che si sono imposti all’attenzione di vaste platee, come il Drugo di Il grande Lebowski (Joel Coen, 2001), un perdigiorno che gira in vestaglia e beve White Russian, o la dolce Amélie (Il favoloso mondo di Amélie, di Jean-Pierre Jeunet, 2001) che si circonda di oggetti meticolosamente rétro.
Ma il regista hipster per eccellenza – definito tale da Michael Newman – è senza dubbio Wes Anderson, un filosofo di Houston che, con le sue maniacali palette di colori, il gusto per i particolari e le simmetrie, l’impiego simbolico degli oggetti, il costante tributo all’infanzia, ha conquistato pubblici trasversali per età e stili di consumo, guadagnandosi il privilegio di disegnare il bar Luce della Fondazione Prada a Milano e di allestirvi una propria mostra (Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori).
Non è difficile scorgere i tratti hipster dei personaggi di Rushmore (1998), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2003) e Quel treno per Darjeling (2007), che rimandano in parte a esperienze personali del regista. Ma sono I Tenenbaum (2001) un vero concentrato di atteggiamenti hipster dislocati nei membri di una famiglia bizzarra e caotica in cui i tre figli, già enfant prodige, si ritrovano adulti inconcludenti e disfunzionali. Gli abiti, indicatore evidente della stranezza dei protagonisti – le tute sportive di Chas, il completo da tennis alla Björn Borg di Richie o ancora la pelliccia e il vestito Lacoste di Margot –, a uno sguardo attento si rivelano un emblema del loro disagio e rinviano agli eventi che hanno bloccato il loro sviluppo. Privi del padre, che ha abbandonato il tetto familiare, e allevati da una madre troppo debole, i giovani Tenenbaum sembrano aver coltivato ciascuno una personale forma di “retrotopia” (la definizione è di Zygmunt Bauman) la quale impedisce loro di diventare adulti. Anche oggetti e musiche assolvono alla stessa funzione di arredamento di un mondo alternativo al presente, capace di offrire sicurezze ai personaggi. Solo i libri – di cui il film è ricco, per non contare i numerosi precedenti letterari cui la vicenda rinvia – contengono confessioni e pensieri impossibili da esprimere a voce.
L’innesco per uno sviluppo della storia (e delle vite dei personaggi) è offerto dal padre, il quale finge una malattia terminale per ritornare a casa e disgregare gli equilibri precari dei familiari.
Anche lui è – a suo modo – un hipster che, a dispetto del nome (Royal), non riesce a esercitare un potere sul gruppo familiare e si maschera dietro cinismo e ironia, quest’ultima condivisa (sotterraneamente) con il narratore del film.
Certo, il suo “sacrificio” non vale a guarire i figli dalla loro “hipsteria”, ma la sposterà a un livello di consapevolezza più avanzata. Come la tuta Adidas di Chas che, nel finale, da rossa diventa nera.
Perché, si sa, l’hipster non è solo strano ma, come indica il prefisso hip, sempre un po’ più avanti agli altri. Il suo essere quirk, strano o fuori tempo, cultore di ciò che la società considera démodé o scartato, in realtà preannuncia mode e gusti nuovi o abbinamenti inconsueti, che saranno presto riconosciuti come all’avanguardia, quando non apertamente geniali dalla massa.
Forse per questa strana capacità di trattenere dal passato i germi del futuro, di essere autenticamente “indie”, gli hipster non smettono di ispirarci curiosità e simpatia.