sfide
N.27 Gennaio 2022
Efficaci e gentili in rete per una nuova città digitale
Riflessioni sull'educazione digitale con una giovane studiosa del CREMIT fra algoritmi e responsabilità, "leoni da tastiera" e... regole del gioco
L’obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritta nel 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’Onu è incentrato sulla necessità di offrire “un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.
Nell’era della trasformazione digitale questo significa anche generare consapevolezza e cultura rispetto alle tecnologie e agli strumenti, ma soprattutto alle opportunità e rischi che il mondo digitale presenta.
Tra le innumerevoli sfide che ci portano verso un futuro che garantisca vera cura e rispetto per “le persone, il pianeta e la prosperità”, quella dell’educazione digitale è dunque davvero centrale, fondamentale e impegnativa, ma al tempo stesso urgente e indifferibile.
Si tratta di una sfida complessa, perché non riguarda soltanto o in modo preminente le giovani generazioni, ma ciascuno di noi, a qualsiasi età e qualunque sia il percorso di studi o la carriera intrapresa. Stiamo infatti parlando di qualcosa che richiede una formazione continua e su più livelli e che non riguarda soltanto gli aspetti tecnologici.
Ne abbiamo parlato con Federica Pelizzari, dottoranda presso l’Università Cattolica che da sei anni collabora con il CREMIT (Centro di Ricerca per l’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia) e che nei giorni scorsi ha tenuto un corso di formazione (in rete) per insegnanti organizzato dall’Ufficio scolastico della Diocesi di Cremona.
Cos’è per te l’educazione digitale e quali sono i suoi obiettivi e la sua missione?
«Quando parliamo di educazione digitale ci riferiamo ad un ambito molto vasto, in cui si intrecciano numerose competenze e contesti. Nel 2019 il Miur ha ritagliato alcune ore di cittadinanza digitale all’interno dell’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole. L’obiettivo è quello di formare cittadini attivi e critici anche nel digitale.
In quest’ottica il Prof. Rivoltella del CREMIT fa esplicito riferimento alla struttura educativa della Media Literacy Education, una cornice teorica che permette di porre le basi per le competenze da sviluppare per affrontare la complessità della società dell’informazione che individua altre due dimensioni oltre quella critica: l’etica e l’estetica e che quindi va ben oltre la mera alfabetizzazione e gli aspetti tecnici e tecnologici, ma guarda alla ricerca di conoscenza e consapevolezza».
In questa prospettiva il nostro modello scolastico è attrezzato o servono figure e ambiti nuovi?
«Il compito dell’educazione alla cittadinanza digitale non può essere completamente delegato alla scuola, ma devono intervenire anche l’extrascuola e le famiglie, che tuttavia sentono la mancanza di una vera complementarietà con le istituzioni e la società in questo difficile compito, per il quale spesso non hanno neppure le necessarie competenze. Uno degli obiettivi che società e istituzioni dovrebbero perseguire è proprio quello della sinergia con le famiglie, soprattutto nelle fasce d’età in cui i bambini, pur non andando ancora a scuola, iniziano ad avere a che fare con schermi e dispositivi digitali messi a disposizione proprio dalla famiglia».
Umberto Eco ci ha lasciato con un messaggio controverso (e probabilmente mal interpretato): “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima del Web parlavano soltanto al bar, dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”.
«Quello dell’odio in Rete è un tema molto ampio che Eco aveva colto bene. La pandemia ha amplificato questo fenomeno a livello globale. I cosiddetti “leoni da tastiera” non sono una novità del web: in tutte le epoche ci sono stati agitatori, contestatori e odiatori, ma la Rete e i Social Media amplificano questi fenomeni in modo esponenziale e a grandissima velocità.
Le cause che portano le persone ad esibire odio sono state ben individuate da professori della Cattolica come Pasta e Santerini, che nello studio “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online” hanno messo in evidenza come molti odiatori della Rete non si sentano cittadini e ancor più non si sentano riconosciuti, partecipi e rispettati».
È possibile intervenire in qualche modo?
«Ciò che dovremmo fare è dunque educare le persone al rispetto reciproco e ad una libertà di pensiero, opinione ed espressione che ha radici profonde proprio in quel valore. Rispettare gli altri e le loro idee è un pilastro che vale tanto online quanto offline, anche se lo schermo dà spesso l’illusione di essere in una dimensione in cui si può andare oltre, osare e addirittura prevaricare».
Torniamo dunque al punto: l’educazione ad una cittadinanza digitale.
«È rilevante come molto dell’odio online nasca da stimoli che non provengono dal basso, ma dall’alto, cosa che fa riflettere sui livelli di comunicazione che vengono sviluppati e che non tengono conto delle caratteristiche e dinamiche della Rete e della diversità degli strumenti utilizzati. Chi se ne occupa? È davvero in grado di farlo? Comunicare qualcosa in modo sbagliato e poi ritrattare (come spesso accade) è una dinamica del tutto insostenibile in Rete, perché ciò che viene pubblicato online difficilmente può essere fermato e ancor più eliminato. Andrebbe invece stimolata e messa in atto una comunicazione che sia efficace e gentile».
Negli anni i tuoi interessi e la tua carriera ti hanno portata verso due aspetti fondamentali dell’educazione digitale: coding (programmazione informatica) e gaming (gioco online). Perché ritieni questi aspetti fondamentali?
«Il coding è la palestra del pensiero computazionale, ma parte da algoritmi e dati e questo apre importanti quesiti su come le piattaforme della Rete usino queste risorse. Da un lato si ape il tema della consapevolezza sull’importanza e sulla delicatezza dei dati: come vengono acquisiti? In che modo vengono usati? C’è poi la questione del grande potere degli algoritmi, che richiedono grande responsabilità oltre che conoscenza e competenza. Puntare sul coding significa però anche insegnare che non esiste un solo modo per arrivare ad un determinato risultato e che anche una materia come questa apre la mente dei ragazzi alla creatività e al problem solving. Ciò che insegniamo è in definitiva il pensiero flessibile, un modo per ragionare con la propria testa ma guardando le cose da più prospettive».
E poi c’è il gioco…
«La gamification apre un mondo di opportunità nell’insegnamento, che da sempre considera il gioco come un elemento centrale, per portare le sue dinamiche all’interno di un processo educativo che comprende, lo strumento, le sue regole e una modalità di apprendimento efficace e gradita da chi apprende. Molti studi concordano che il gioco fa apprendere in modo positivo».
L’Università Cattolica ha da poco avviato a Cremona un nuovo corso di laurea su “Innovazione e imprenditorialità digitale” e questa è un’ottima notizia in una città e in un’area che guardano al futuro con grandi aspettative e speranze. In che modo ritieni che questo possa dare una spinta al territorio, oltre che ai singoli studenti?
«Questo nuovo corso di studi apre a visioni prospettiche e propedeutiche a nuovi lavori e startup innovative. L’innovazione farà sempre la differenza e l’imprenditorialità digitale è una già un’importante realtà. Permettere agli studenti di studiare queste prospettive è una leva fondamentale per una città come Cremona e nell’ambito di una regione come la Lombardia. Le ricadute sul territorio possono essere molteplici, come ad esempio nella gestione di un e-commerce, ma anche per imparare a gestire comunicazione e marketing digitale. Competenze che possono aprire le porte ad attività in proprio o da dipendente, con ampi margini di crescita e di carriera».