sfide

N.27 Gennaio 2022

VITA

La sfida di restare per non cedere alla noia

Di fronte alle provocazioni del nostro quotidiano possiamo reagire come Ettore, o lasciarci guidare dall'ira di Achille, cedere alla tentazione del frutto proibito o scoprire la bellezza del limite (e dell'Oltre che annuncia)

Alla radice della storia occidentale due sfide si presentano come paradigmatiche delle modalità di affrontare ciò che è altro da sé: l’omerico duello tra Achille e Ettore quale competizione per decretare il vincitore, e quello biblico tra il serpente ed Eva quale provocazione e istigazione ad andare oltre il limite ultimo.

Achille, affranto per la morte dell’amico Patroclo, decide di tornare a combattere per vendicarlo. Ettore è pronto, nonostante le suppliche di Priamo a ritirarsi dentro le mura di Troia, a sfidare il nemico e la morte per l’onore e la difesa della città. Due dissimili sentimenti albergano nell’animo dei due contendenti: Ettore consapevole della morte che l’attende, chiede sepoltura quale ultimo atto di umana pietà nella ferocia della guerra; Achille, accecato dall’odio e chiuso nel suo dolore, brama solo la dannazione eterna di chi gli ha lacerato l’anima.
Ciascuno di noi di fronte alle sfide del vivere quotidiano (malattie, lutti, violenze, sfruttamenti, menzogne… tanto per citarne alcune) può lottare con la rabbia del narcisista Achille o con la generosità di Ettore. Achille rappresenta ciascuno di noi ogni qual volta viviamo le nostre fatiche, il nostro dolore, le nostre fragilità cercandone un responsabile, un nemico da annientare. È tipico del narcisista ferito cercare vendetta e perseguire l’annientamento di chi, a torto o a ragione, è ritenuto causa del personale dolore perpetuando le dinamiche tribali della divisione tra amici e nemici, dell’esaltazione degli elementi identitari che escludono ogni diversità. È la logica tribale dei gruppi social, omologati nei gusti e uniformi nei pensieri, a generare il linguaggio dell’insulto, della volgarità, della minaccia.

È la logica tribale
dei gruppi social,
omologati nei gusti
e uniformi nei pensieri

È il tribalismo di chi vede nell’immigrato la causa della sua malattia, della sua disoccupazione, della sua sicurezza a respingere, a recludere, a sfruttare e schiavizzare chi non ha pietra su cui posare il capo. È la logica di quei genitori che, appiattiti sull’esteriorità e adoranti i loro figli, incolpano e aggrediscono gli insegnanti considerati causa delle loro frustrazioni. È il narcisismo di chi in nome di teorie del complotto e dell’antiscienza grida, in piena pandemia, alla dittatura sanitaria, irride ad ogni obbligo e minaccia di morte medici, infermieri, virologi, politici. Il tribalismo si perpetua in chi vive l’economia solo come fonte di guadagno, gode delle disgrazie altrui che possono arricchirlo, misconosce ogni investimento che possa tutelare il lavoro e un’adeguata distribuzione della ricchezza. Il narcisismo dunque produce una generale guerriglia destinata a lasciare macerie e solitudini. Solo il coraggio di restare davanti al valore e alla dignità di ogni uomo può generare una comunità civile. Ettore resta davanti alla porta della città, ha il coraggio di sfidare il guerriero più temuto per garantire la vita e l’onore dei suoi concittadini. Restare è la postura di chi sa chiedere e offrire quella compassione di cui Achille è incapace e che Ettore chiede per sé e dona alla sua famiglia e alla sua comunità. Gli “Achille” di oggi possono essere sfidati solo da chi ha il coraggio di guardare alla rabbia e al risentimento vedendo con pietà il dolore che vi si cela.

Oltre al narcisismo, l’impedimento radicale alla costruzione della città dell’uomo è il nichilismo la cui primitiva origine si ritrova nella sfida del serpente lanciata a Eva e Adamo perché non si accontentino dei frutti dei tanti alberi dell’Eden e colgano quell’unico frutto, proibito. In quella mano che stacca il frutto dell’albero del bene e del male prende avvio la storia di un’umanità decisa ad uccidere il Padre per essere assolutamente libera, senza più legge e limiti. L’invidioso serpente nel perseguire il fine di destituire Dio dalla sua signoria sul mondo e sulla storia condanna l’uomo all’angoscia e alla disperazione. L’uomo perde le radici della sua esistenza e si appiattisce su un presente senza futuro. La perdita del limite che delinea l’orizzonte e che permette di immaginare altri infiniti mondi, consegna l’uomo alla noia, al male di vivere che preclude a qualsiasi sentimento.

La perdita del limite
consegna l’uomo alla noia

Quando nulla ha più valore, tutto si equivale e, dunque, tutto è permesso. È la noia che spinge giovani e meno giovani a cercare lo sballo, che istiga all’uso drogato del cellulare, che genera un iper-attivismo fine a se stesso, che schiavizza e consegna alla violenza come unica possibilità di provare emozioni forti. Per uscire dalla dannazione del non senso alcuni invocano il ritorno del Padre che possa ridimensionare l’ipertrofico io, altri chiedono un’educazione sentimentale.
Insegnare a fare esperienza della bellezza di un tramonto, della bontà di un gesto, della vergogna di un’azione prepotente, della bassezza dell’adulazione, dell’indignazione di fronte ad una ingiustizia, della volgarità di un linguaggio potrebbe consentire di aprire uno spiraglio da cui possa passare la luce della verità. Sentire che vi sono nella nostra esperienza valori e disvalori, che ci sono limiti, i soli che consentono di esercitare la libertà della scelta, permettono di uscire dalla noia e tornare a innamorarsi della vita. Se ciascuno di noi è stato almeno una volta innamorato, sa che è possibile guardare all’altro con stupore, coglierne lo splendore, amarlo e realizzare l’inatteso, come scrive la poetessa premio Nobel Wisława Szymborska*: di tigri che berranno latte, di squali che affogheranno nell’acqua, di lupi che sbadiglieranno alle gabbie aperte, di pavoni che si scrolleranno di dosso le penne.

POESIA

Un incontro inatteso

Siamo molto cortesi l’uno con l’altro,
diciamo che è bello incontrarsi dopo anni.

Le nostre tigri bevono latte.
I nostri sparvieri vanno a piedi.
I nostri squali affogano nell’acqua.
I nostri lupi sbadigliano alla gabbia aperta.

Le nostre vipere
si sono scrollate di dosso i lampi,
le scimmie gli slanci, i pavoni le penne.
I pipistrelli già da tanto
sono volati via dai nostri capelli.

Ci fermiamo a metà della frase,
senza scampo sorridenti.

La nostra gente
non sa parlarsi.

– Wisława Szymborska