radici
N.29 Marzo 2022
Eppure sono… solo canzonette
Voce di protesta, ricerca poetica, memoria collettiva... come l'arte della canzone può raccogliere attorno a sé e alle sue parole sdrucite una comunità di persone
Qual è il significato della musica? È una predisposizione innata? È una specie di grammatica dell’emozione? È pura interiorità? È intuizione lirica applicata ai suoni, per scomodare i termini di un noto filosofo del secolo scorso? Oppure è semplice intrattenimento, svago della mente e del cuore? Le domande potrebbero moltiplicarsi. Certo ha degli effetti identificativi ed esplicativi, come un istinto radicato nel sistema nervoso della specie umana che può permettere una risposta universale, veloce e spontanea allo stimolo ambientale. Nel 1985 Bob Geldof e Midge Ure organizzarono il Live Aid, ovvero una serie di eventi musicali che si svolsero in diverse località nel mondo, portando alcuni dei maggiori artisti internazionali a esibirsi in diretta televisiva per raccogliere fondi contro la carestia che stava affliggendo l’Etiopia. In quell’occasione, la musica espresse sensibilità, interpretò desideri, commentò speranze.
Ma non entreremo nel significato della musica in questi contesti; solo si vuole tentare di spiegare come mai la tanto snobbata cultura della canzone arrivi a condividere motivi ideali attorno a cui si raduna una folla di individui. Perché le radici non sono solo da dove partiamo, ma anche chi siamo dentro e che cosa si è depositato dentro di noi nell’attraversare le condivisioni/repulsioni collettive del nostro passato; e occorre poi sempre un contenitore che le esplichi, forse come ha fatto e sta facendo quel nastro musicale continuo di espressione artistica in cui siamo immersi più o meno consapevolmente che è rappresentato dal fenomeno della musica leggera o pop.
How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
How many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, and how many times
must the cannonballs fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind.
(Bob Dylan, Blowing in the wind, 1963)
Dagli anni Cinquanta in poi la musica leggera ha assunto un connotato nuovo. Prima, vi era il canto di protesta, di emigrazione, di lavoro, di guerra, la canzone in dialetto o la romanza derivata dal melodramma ottocentesco. Poi, è diventata lo specchio di un paese che voleva rinascere dalle macerie, grazie anche ai nuovi sistemi di trasmissione, il grammofono, il giradischi, il juke box, l’avvento del microsolco e naturalmente la televisione, nata nel 1954 – tra l’altro con le riprese del Festival di Sanremo, nato nel 1951, simbolicamente leggibile come luogo della musica per tutti.
E il vento d’estate che viene dal mare
Intonerà un canto fra mille rovine
Fra le macerie delle città
Fra case e palazzi
che lento il tempo sgretolerà
Fra macchine e strade
risorgerà il mondo nuovo
ma noi non ci saremo
(Francesco Guccini, Noi non ci saremo, 1967)
Poi si è evoluta abbeverandosi alle fonti della poesia colta con le produzioni più recenti dei cantautori, ampliandosi a nuove modalità di ascolto con il concerto, la discoteca, l’autoradio, il walkman, la videocassetta, il CD, il DVD, fino ad arrivare alla possibilità di scaricare la propria musica da internet. Una progressione di tecnologia non casuale, che ha reso disponibile l’arte della canzone (e sottolineo arte) a una platea vastissima di uditori unendo desiderio di senso e fedeltà di suono.
Dove dare fondamenta alla speranza
Proprio come un albero
mi adatto un poco a tutto
Basta solo un po′ di clima di accoglienza
No, no, no alla violenza
Non rivendico nessuna appartenenza
Tranne quella al mondo degli esseri viventi
Col diritto di affondare le radici
Sogno un universo dove ogni differenza
Sia la base per poter essere amici.
(Lorenzo Jovannotti, L’Albero, 1997)
Dentro a questa tecnica sempre più sofisticata si è delineata una “lingua della canzone” che ha avuto ed ha tuttora la connotazione di ritrarre il mondo vissuto trasferendo le sue stesse parole su un piano emotivo/simbolico/sintetico/aurale e diventando la colonna sonora del quotidiano. L’aulicità e la grandiosità retorica del grande messaggio ha lasciato il posto alla semplice comunicazione dimessa, colloquiale, antiretorica, perfino banale, se non fosse che la banalità è conferma del gioco che separa l’arte dalla vita.
People killin’ people dyin’
Children hurtin’, I hear them cryin’
Could you practice what you preach?
Would you turn the other cheek?
Father, Father, Father help us
Send some guidance from above
‘Cause people got me, got me questioning
Where’s the love?
(Black Eyed Peas, Where is the love? 2003)
Sono solo canzonette: in realtà è musica che identifica un vivere, ne sublima desideri e ci dice che il nostro tempo non ha più bisogno di eroi o di figure mitologiche, ma di piccoli passi per cui…
è possibile
Perfino credere
Che possa esistere
Un mondo migliore
(Vasco Rossi, Un mondo migliore, 2016)
Ma non è solo questione di lingua. Intrecciandosi con la storia, il linguaggio della canzone italiana ha potuto ora precorrere, ora riflettere, ora assecondare i fatti; funzionare, insomma, come un grande condensatore di emozioni, dalle più ovvie alle più impegnate, dalle innumerevoli varianti sul tema dei sentimenti a quelle di autentica poesia, dalle meno serie a quelle che hanno risvolti drammatici e politici. Non solo con le canzoni, ma “anche” con le canzoni, grazie al loro potere evocativo, si è costituito un patrimonio linguistico e culturale condiviso, un serbatoio di memoria collettiva che ci fa sentire tutti, al di là delle differenze regionali, generazionali, sociali, culturali, parte di una medesima comunità e dunque di radicare in tutti e ciascuno quei rudimenti di convivenza civile in cui ci ostiniamo a credere.
… migliaia di gole gonfie di parole di dolore,
spine nel cuore di quelli che vedon marcire
i propri fratelli, popoli usati
come merce di scambio:
mi oppongo.
A patti non scendo con questa realtà
e non mi va… e non mi va… e non mi va
che “patibolo” sia il titolo
del nuovo capitolo che stiamo per scrivere:
forza, capitelo!
Usiamo più il cuore e un po’ meno le spranghe,
perché siam libri di sangue
(Frankie HI NRG MC, Libri di sangue, 2011)
Ciò che in periodi bui come il nostro può raccogliere attorno a una canzone e alle sue parole sdrucite una comunità di persone.
Solo qualche giorno fa, il 25 febbraio, Gianni Morandi saliva sul palco in piazza Maggiore a Bologna per cantare quel vecchio inno pacifista che risponde al titolo di “C’era un ragazzo”, davanti a diecimila persone scese in piazza per protestare contro l’invasione dell’Ucraina.
Eppure sono semplici canzonette…