mattoni
N.55
Giorgio Bazzega: così ho imparato che la giustizia non è vendetta
Il figlio di Sergio Bazzega, maresciallo ucciso da un brigatista, ha raccontato a Cremona il suo percorso dalla rabbia all'incontro con la vera eredità di suo padre, passato attraverso la giustizia riparativa... e la testata di un cane
«Tuo padre era un eroe. Tuo padre era un eroe. Tuo padre era un eroe. Me lo ripetevano in continuazione, mettendomi la mano sulla testa. Poi, a mezza voce, aggiungevano: “povero bambino”». In quelle parole e in quei gesti, che punteggiavano le numerose cerimonie di commemorazione, mancava l’ingrediente più importante e necessario: il calore umano, l’empatia.
E quel bambino, schiacciato in mezzo ad un muro di adulti, si sentiva solo, anzi, per usare le sue stesse parole, «sfigato». «Alla quarta mano che mi appoggiavano sulla testa, io gliela avrei tagliata». Giorgio Bazzega, confuso e arrabbiato, l’avrebbe fatto davvero; gli sarebbe bastato spiccare un salto per strappare la spada alla donna a cui tutti si appellavano: la giustizia. Una figura femminile che nella mano sinistra teneva la bilancia un oggetto per lui semisconosciuto, ma che nell’altra brandiva, protesta verso l’alto, pronta a colpire, una spada.
Un’arma affilata, a doppio taglio, che evoca dolore e dissuade i malintenzionati dall’attuare i loro piani malvagi. Un oggetto che richiama il potere di “decidere”, la cui etimologia è de-caedere, cioè “tagliare da” con un riferimento immediato al fendente con cui la spada asporta la parte malata del corpo, al fine di guarirlo.
Ecco, Giorgio avrebbe voluto bradire quella spada per tagliare quelle mani appoggiate sopra la testa e lanciarsi alla caccia di coloro che gli avevano tolto la persona più importante della sua vita: suo padre.
I racconti in casa inizialmente erano confusi, nel tentativo di proteggere il bambino da una verità difficile da accettare, ma c’era voluto poco a scoprire che era stata proprio un’arma ad aver spezzato, insieme a quella del Vice Questore Vittorio Padovani, anche la vita del maresciallo Sergio Bazzega; non era stata una spada, ma la pistola impugnata da Walter Alasia, appartenente alle Brigate Rosse.
L’ingarbugliata trama delle emozioni che si agitavano nel cuore di Giorgio, dominato dal sentimento dell’odio, esplose il giorno in cui Renato Curcio uscì dal carcere. Ormai diventato un ragazzo, aveva deciso di «uccidere tutti i responsabili» della morte del padre, stilandone un elenco, ipotizzando dove avrebbe potuto incontrarli, preparandosi mentalmente e fisicamente. La notizia della scarcerazione era stata «come un cortocircuito», fornendo al confuso sentimento d’odio un obiettivo concreto perché, per Giorgio, «la giustizia era solo vendetta».
Per Giorgio, la giustizia era solo vendetta
Ma un colpo di pistola, come il fendente di una spada, possono solo apparentemente riparare un torto subìto. In realtà creano ulteriore dolore, ulteriore odio. Un sordo rancore aveva avvelenato la vita del figlio del maresciallo tanto che, inconsapevolmente, era diventato dipendente da un sentimento che si ritorceva su se stesso, diventando autodistruttivo.
Giorgio scivolava nella dipendenza da sostanze: «La prima canna me la sono fatta a 11 anni, poi più tardi, sono passato alla cocaina; mi sono fatto di tutto tranne l’eroina». Man mano che gli anni passavano, perdeva «il contatto con la realtà. Ero sempre negativo, depresso, non facevo altro che avvelenare me stesso e le persone che mi stavano vicino»
La svolta giungeva, provvidenziale quanto inaspettata, da una dolorosa testata del cane che tentava, con un’esuberante manifestazione di affetto, di confortare il proprio padrone: «Quella legnata, arrivata direttamente sul mio naso, mi aveva svegliato: ancora sporco di sangue, ho iniziato a piangere come non avevo mai pianto in vita mia». La mano serrata attorno ad un’arma immaginaria, desiderosa solo di portare a termine il proprio piano di vendetta, iniziava a lasciare la presa.
La mano serrata attorno ad un’arma immaginaria, desiderosa solo di portare a termine il proprio piano di vendetta, iniziava a lasciare la presa
Dopo aver seguito e concluso con successo l’ennesimo percorso di disintossicazione, «tre anni canonici», Giorgio si ritrovava ancora da solo con «il problema per cui mi facevo: la sostanza è il campanello d’allarme che c’è una questione da risolvere: non devi lavorare sulla sostanza, ma sul motivo per cui la usi, altrimenti sposti la dipendenza su altre cose. Io dovevo fare i conti con quello che mi era successo».
L’intuizione salvifica fu quella di avvicinarsi a persone come lui, alle “vittime” (termine che preferisce non usare) del terrorismo. Nei primi tempi Giorgio beneficiava del fatto di incontrare chi, come lui, aveva attraversato situazioni dolorose, ma poi rinasceva nel suo cuore un senso di profonda insoddisfazione. «Quando metti un microfono davanti ad una vittima, esce solo il peggio di te! Io stavo male, non avevo bisogno che la mia rabbia venisse supportata, avevo bisogno che venisse smontata».
«Non avevo bisogno che la mia rabbia venisse supportata, avevo bisogno che venisse smontata»
Oggi Giorgio afferma, con genuina franchezza, di essere una persona fortunata. Difficile comprenderne la ragione ma, sicuramente, la sorte fu benigna il giorno in cui incontrò uno dei pochi uomini che, dove tutti erigevano muri, si ostinava ancora a costruire ponti. «Non avevo mai sentito una vittima che, invece di piangersi addosso, si responsabilizzava per quello che gli era successo. Da quel giorno, Manlio Milani, che aveva perso sua moglie nella strage di Piazza della Loggia a Brescia, è diventato il mio super eroe».
Per costruire servono più persone di buona volontà ed infinita pazienza: Giorgio lo capì sulla propria pelle. Finalmente smise di inseguire i responsabili della morte di suo padre e cercò i costruttori di pace.
Finalmente smise di inseguire i responsabili della morte di suo padre e cercò i costruttori di pace
Giungeva così, grazie a Manlio, ad un incontro di giustizia riparativa tra vittime del terrorismo ed autori della lotta armata. «Per la prima volta in cui la mia rabbia è stata accolta in modo giusto, proprio da un ex brigatista: Franco Bonisoli; non mi era mai successo di essermi sentito così accolto e riconosciuto». Una vera e propria illuminazione, come quella rappresentata magistralmente dal Caravaggio ne La Conversione di San Paolo con il cavaliere disarcionato illuminato da una luce analoga a quella «che abbaglia John Belushi nel film dei Blues Brothers», puntualizza Bazzega.
Ma i percorsi di consapevolezza non sono semplici da seguire e Giorgio sbatte contro uno scoglio, apparentemente insuperabile. Torna ancora una volta dalla madre, «la mia roccia» e piangendo le confessa: “Non posso andare avanti con i gruppi”. “Ma come?”, risponde lei. “È la prima cosa che ti fa bene”. “Io non posso andare avanti – le spiega il figlio – perché io sto iniziando a volere bene alle persone responsabili della morte del papà”. «Mia madre mi diede una carezza e mi disse: “Figlio mio non te ne rendi conto, ma finalmente stai parlando proprio come tuo padre”».
«Sto iniziando a volere bene alle persone responsabili della morte del papà»
Giorgio ha così compreso che quell’enorme vuoto che sentiva nel cuore non era da colmare ma uno spazio dove poter costruire. E Bazzega, riappropriandosi dell’eredità più autentica del padre, si è messo a costruire ponti. Non spade per recidere ma mattoni per costruire e ricostruire con pazienza; non proiettili, con cui farsi giustizia da soli, ma ago e filo per ricucire gli strappi di cui, in diversa misura, siamo tutti responsabili.
L’appuntamento “La potenza dell’in-contro: testimonianza di Giorgio Bazzega e Grazia Grena protagonisti di un percorso nazionale di giustizia riparativa” si è svolto sabato 23 novembre presso il Centro Pastorale Diocesano. Organizzato nell’ambito del Festival dei Diritti 24 in collaborazione con Consorzio Solco Cremona, Coop Nazareth, Coop Cosper, Diocesi di Cremona Ufficio Pastorale Sociale e Lavoro, progetto Restart, CSV Lombardia Sud e Comune di Cremona.