sfide

N.27 Gennaio 2022

PERCORSI

Reo e vittima faccia a faccia per ricucire la società ferita

È partito a Cremona un percorso di formazione per operatori della giustizia riparativa Cerchiamo di capire di cosa si tratta e se siamo pronti per provarci

Samuel ha sfoggiato per l’occasione una giacca color blu petrolio. Con sotto la camicia bianca forse sembra un po’ un cameriere, ma non importa.

È andata bene per il matrimonio della cugina, sarà perfetta anche per il Tribunale dei Minori di Brescia.

I capelli modellati con il gel, l’orecchino che brilla, tutto a posto, ma non c’è serenità nel suo sguardo. Un misto di paura e rabbia si legge negli occhi chiari, difficili da incrociare anche quando si parla con lui.
Le mani sudano ma sono fredde. Davvero strane le reazioni del corpo umano quando si è agitati e nervosi. Per fortuna a fianco di Samuel ci sono l’avvocato e, soprattutto, l’educatore.
Nella testa del ragazzo si rincorrono mille pensieri, Luca li conosce bene e li intuisce: “Cosa mi dirà il giudice? Che cosa vuole da me?”, “Cosa mi faranno fare nella messa alla prova? Quanti mesi mi daranno?”, “Tra tutti i ragazzi in giro che vendono fumo, proprio me dovevano beccare?”.
Se Samuel è un nome di fantasia, Luca invece è un vero educatore. Appoggiato allo stipite della porta di ingresso de La Gare des Gars, lancia un’occhiata al piazzale degli autobus di Cremona. La ciclofficina sociale, situata nella ex biglietteria, è un luogo di passaggio e apprendimento per molti adolescenti, giovani e adulti in messa alla prova. «Ci siamo riappropriati di uno spazio abbandonato – racconta accarezzandosi la barba corvina – per inventare una coabitazione tra i ragazzi e la società, nonostante le fatiche ed il male commesso». La ciclofficina è un posto di frontiera, non solo per l’aspetto provvisorio della struttura. Parte da qui la sfida per introdurre a Cremona il tema della giustizia riparativa. Vi operano infatti gli educatori che, attraverso il progetto “Incubatori di comunità”, si stanno formando per poi lavorare con vittime e autori di reato.

Anche il territorio è corresponsabile
di ciò che è successo,
quindi è giusto che se ne faccia carico

«Quando qualcuno compie un’azione malvagia, la nostra prima reazione, “di pancia”, è invocare una punizione esemplare che abbia una funzione punitiva e preventiva – spiega Riccardo Pavan, uno dei relatori del percorso formativo. «È una pedagogia della sicurezza basata sul fatto che ti asterrai dal commettere reato, altrimenti dovrai pagare con la spada», prosegue riferendosi all’iconografia classica in cui la giustizia viene raffigurata mentre sorregge con una mano la bilancia e nell’altra brandisce una lunga lama. «Si tratta di un sistema evocato dalla vittima e dalla società, convinti entrambi che si sentiranno ripagati quando verrà punito chi ha commesso il reato. Ma ho imparato, dal mio lavoro come nella realtà, che la pena non lava mai la colpa e, anche dopo dieci anni di carcere, la vittima non si sente risarcita mentre al reo rimane addosso, per sempre, lo stigma della colpevolezza. In verità nulla può far tornare indietro il tempo, cancellando quel che è successo».
Torna alla mente la parabola dell’adultera quando a Gesù viene chiesto di pronunciarsi rispetto a ciò che è scritto nella legge mosaica. Gli Scribi e i Farisei, interrogandolo, non cercano la verità ma solo “un pretesto per accusarlo”. Il gesto di scrivere per terra, che sicuramente li avrà irritati e disorientati, è un invito a mettere da parte l’impulsività, a sostare dopo aver appoggiato le pietre già pronte per essere scagliate. Gesù, una volta spariti gli accusatori, libera la donna senza giudizio, restituendole la sua dignità, facendole capire che lei non coincide con il suo peccato, che è possibile cambiare vita e ricominciare.
«Nella società odierna – prosegue Pavan – tendiamo sempre più a convincerci che il male riguardi solo gli altri. Nella mia esperienza, però, con autori di reati gravi in carceri minorili ho visto quanto sia potente il marchio di Caino. Non solo quello dato dalla società, ma anche quello che si autoimpongono gli stessi ragazzi. Quando parli con loro si descrivono, prima di tutto, attraverso il reato che hanno compiuto: “sono uno spacciatore, un rapinatore, un bullo…”».
Mentre gli scorrono davanti agli occhi i visi di tutti i ragazzi incontrati nel suo lavoro, aggiunge: «La domanda implicita che ti pongono è sempre la stessa, pungente: “puoi accettarmi anche se sono questo? Riesci a vedere che io sono altro, oltre al mio reato?”.

Per comprendere meglio come si attua, nel concreto, la giustizia riparativa, Riccardo racconta la storia di Andrea (nome di fantasia). È un ragazzo autore di un reato molto grave contro la persona, un evento che ha avuto grande risalto sulla stampa nazionale scatenando un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica. Vengono interpellati importanti esperti nel settore per valutare la pericolosità sociale del ragazzo. L’esito della perizia attesta la piena capacità di intendere e volere, quindi la condizione di colpa totale. In questo momento entra in campo lo staff di cui fa parte Riccardo. Il lavoro prende avvio da alcune domande essenziali: “Venendo a mancare la vittima (scomparsa nel frattempo), come lavorare sulla riparazione?” – e ancora – “c’è in Andrea il desiderio di riparare a ciò che ha commesso?”. Non è raro incontrare persone che preferiscono scontare la pena e non sono interessate ad affrontare un percorso di tipo riparativo.
Mancando fisicamente la vittima, il ragazzo viene aiutato a rileggere il reato commesso come rottura di un rapporto creato con la sua legge del desiderio, “cosa volevi diventare?” e con quella del mondo esterno, “cosa si aspettavano gli altri che tu diventassi?”.
Attraverso gli stimoli ricevuti, Andrea riesce ad esprimere la volontà di fare azioni in favore della collettività, nello specifico di ripristino di beni comuni. Si avvia così un lento lavoro di riappropriazione del mondo, di reinserimento in quella società che l’aveva etichettato, una paziente opera per cercare di grattare via lo stigma attraverso gesti molto concreti, come tinteggiare il centro anziani del paese o riparare le panchine dei giardini pubblici.
Grazie alla collaborazione del territorio, viene attivata anche un’altra procedura prevista nella giustizia riparativa: il conferencing. Andrea incontra delle figure della realtà locale, nello specifico un insegnante, un amministratore e un volontario che, standogli seduti di fronte, danno un volto e un corpo al concetto astratto di collettività. A loro, in un momento cruciale del percorso, Andrea chiede scusa per ciò che ha commesso.

Nello stesso tempo è anche il territorio ad interrogarsi, partendo dalle politiche sociali: “Perché questo ragazzo la mattina era in giro e non a scuola?”; “È stato svolto un lavoro di aggancio con la gang di cui faceva parte?”.
Domande scomode, ma necessarie, per evitare di pensare che il male sia qualcosa che viene da fuori. Uno degli obbiettivi della giustizia riparativa infatti è riflettere sul fatto che anche il territorio è corresponsabile di ciò che è successo, quindi è giusto che se ne faccia carico.
Andrea attua un passo ulteriore, chiedendo di voler andare a compiere gesti di riparazione nello stesso luogo in cui la vittima veniva ospitata, un centro di accoglienza gestito da una realtà del privato sociale. Il suo desiderio è “vivere i luoghi dove lui ha vissuto” dando un piccolo ma significativo contributo. Quell’organizzazione, ha rifiutato la proposta del ragazzo: “Ha fatto del male, non lo vogliamo tra noi!”.

Ma, come la pianta trova sempre nuove strade per innalzarsi verso i raggi del sole, così viene trovata una nuova strada da percorrere: Andrea si recherà nelle scuole medie a parlare nelle classi. Anche se non racconta direttamente della propria esperienza, prende spunto dalla sua vicenda per testimoniare come si possa riparare la propria colpa, piccola o grande che sia. Il percorso, ora concluso, è durato quattro anni ed è stata un’esperienza che ha provocato parecchi cambiamenti in Andrea. Grazie alle esperienze e gli incontri vissuti, ha avuto l’opportunità di mettere in discussione e ricostruire la propria identità, per ritrovare il proprio posto nella società.

«Fare giustizia significa
innanzitutto
risanare le ferite»

DESMOND TUTU

«La giustizia riparativa accoglie sia vittima che reo, dando loro la possibilità di incontrarsi – spiega Luca -. A seguito di alcuni colloqui preliminari con un mediatore, si può giungere anche a trovarsi faccia a faccia: reo e vittima, si rivolgono domande e aspettano risposte. Di solito inizia la vittima». Un rapinatore potrà sentire la signora a cui ha rubato la borsetta dirgli che non esce più di casa, che da quel giorno non è più andata a fare la spesa, che una domanda le martella ossessivamente in testa “perché proprio io?”. “Eppure c’erano altre persone in quel parco, come mai hai scelto me?”. E la mente continua a formulare ipotesi: “Forse perché, così magra, sembro più fragile?”, “O per quel cappotto rosso, un po’ troppo appariscente?”.
Ci saranno domande, risposte e molti silenzi, perché la riparazione è un’operazione difficile e paziente che richiede tempo. Il reo, dopo aver ascoltato, chiederà scusa per ognuna delle ferite inferte alla vittima e questa deciderà, per ognuna di esse, se accettare le sue scuse o meno. Al termine del percorso, insieme, potranno concordare un’azione che possa, simbolicamente, ricucire il legame strappato.
Così, da un’idea di giustizia raffigurata con bilancia e spada, si delinea un’altra immagine: un ago e un filo. «È vano il passaggio dell’ago senza il filo…- scrive in uno dei suoi saggi padre Andrea Panont – Solo tramite la dolorosa puntura dell’ago è possibile al filo passare e ripassare sulla ferita del tessuto così da ricomporla, aggiustarla, sanarla».
«Le azioni di riparazione devono essere brevi, concrete, non devono trasformarsi esse stesse in una pena- chiarisce Luca – per esempio un ragazzo autore di bullismo ha scelto di aiutare, all’interno di un doposcuola, alcuni ragazzi disabili». Riccardo racconta invece di un sedicenne, autore di spaccio, a cui era stato proposto di andare a sistemare gli spazi utilizzati da un “gruppo di parola”. Le persone che incontrava tutti i mercoledì sera, erano padri e madri di ragazzi con problemi di tossicodipendenza. È così giunto il momento in cui il ragazzo, spontaneamente, ha chiesto scusa al gruppo genitori che, almeno in parte, si sono sentiti riparati per il male subito.
Dando un ultimo sguardo alla ciclofficina, mentre la sera avanza e alcuni ragazzi escono per rientrare a casa, torna alla mente uno dei personaggi più significativi nella promozione della giustizia come riparazione: il recentemente scomparso arcivescovo Desmond Tutu. Dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica, nel 1995, ideò e presiedette la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Per spiegare il suo funzionamento diceva: “Fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso». La strada tracciata dal premio Nobel per la pace è lunga e difficoltosa. La nostra comunità è pronta a dare un’opportunità ai rei, ad ascoltare le vittime, a deporre la spada per mettersi, con pazienza, a ricucire?