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N.51 Giugno/Luglio 2024
«I luoghi sono della cultura se li abitiamo insieme… oggi»
Arte contemporanea in Battistero, concerti trap in piazza Duomo, spazi che cambiano e chiamano ad interrogarci sul nostro modo di vivere la città, i suoi luoghi, i suoi riti. Ne parliamo con don Gaiardi, incaricato diocesano per i Beni culturali e direttore del Museo Diocesano
Maurizio Cattelan porta una sua installazione nel Battistero e due giovani artiste (Nicole Colombo e Silvia Giambrone) nella settimana di Artweek Cremona coniugano il linguaggio crudo dell’arte contemporanea con gli spazi del Museo Diocesano e con i profili della città del saper fare liutario. La piazza del Comune, all’ombra dei mattoni del Torrazzo e dei marmi sinuosi della Cattedrale di Santa Maria Assunta, assisteranno durante i mesi estivi al concerto di due trapper nati dopo il 2000 di cui fanno discutere più i precedenti penali che la qualità delle rime.
Intanto antichi monasteri a ridosso del centro cittadino, convertiti in edifici militari e quindi abbandonati, riprendono vita trasformati in campus universitari, mentre ci si interroga sull’offerta abitativa connessa alla presenza degli studenti fuorisede e non manca il dibattito sulla formazione di nuovi agglomerati commerciali dentro e ai margini del perimetro urbano.
Gli spazi della convivenza sono in movimento, si aprono aree di dialogo e faglie di scontro; i luoghi mutano forma e funzione seguendo la liquidità che ci avvolge. O forse è l’opposto…
Ne abbiamo ragionato con don Gianluca Gaiardi, incaricato dei Beni Culturali per la Diocesi di Cremona e direttore dei Musei diocesani.
Che cosa rende un luogo uno “spazio di cultura”?
«Ogni luogo è un luogo di cultura quando è abitato dall’uomo. Con la sua personalità, la sua storia e il suo modo di esprimersi, l’uomo rende i luoghi “abiti su misura”, spazi a misura della sua umanità. Gli esempi storici di città ideale, dalla nostra Sabbioneta a Pienza, sono frutto della riflessione su questa proporzione all’interno di un preciso momento. In un determinato contesto culturale».
Spazi che ospitano cultura e spazi che producono cultura: quale equilibrio deve esistere tra queste due accezioni?
«Il verbo “ospitare” può essere percepito come qualcosa di temporaneo. È il caso di strade, piazze, parchi sono adibiti a tante funzioni diverse (dal mercato all’arringa politica, ai concerti…) anche se per così dire, di passaggio. Ma se vogliamo andare più a fondo “ospitare” è una bellissima parola: nell’ospedale ci si prende cura delle persone; l’ospitalità è la virtù dell’accoglienza. Luoghi così sono forse occasionali, ma preziosi».
L’opera di Cattelan in Battistero a Cremona e le installazioni di Nicole Colombo Silvia Giambrone, ospitate al Museo Diocesano per Cremona Art-Week 2023
Ci sono poi i luoghi che producono cultura, che la influenzano.
«In questo caso la prima impressione potrebbe essere quella di luoghi non accessibili a tutti, quindi poco accoglienti. In fondo un museo bisogna sceglierlo, un teatro ancora di più. Sembrano spazi riservati alle élite. Però fortunatamente nella nostra società i luoghi in cui si esprimono i linguaggi dell’arte si sono molto aperti e cercano il dialogo con gli altri spazi della città».
Come vive questo dialogo il Museo Diocesano?
«Aprire un Museo oggi è un’idea faticosa. C’è chi ha detto che il Museo Diocesano ha colmato una mancanza che si avvertiva in città… Non so se sia proprio così. Però certamente in questo periodo storico in cui Cremona sta cercando di valorizzare la sua cultura più specifica, quella legata alla musica, alla tradizione liutaria e artigianale, il Museo Diocesano ha messo un tassello importante. Lo ha fatto presentandosi non come un museo di arte sacra (anche il Louvre lo sarebbe se si guarda al contenuto delle opere che ospita!), ma come un racconto del territorio. Della sua arte, della sua cultura e quindi anche della sua fede».
Una sala del Museo Diocesano, uno scorcio sul soffitto del Battistero e un dettaglio del nuovo altare della Cattedrale realizzato dall’artista Gian Maria Potenza
Il Museo però non è solo, ma completa un vero e proprio polo culturale ecclesiastico con Battistero, Torrazzo e Cattedrale. In questo senso gli spazi dell’arte e anche del turismo, si sovrappongono a quelli della liturgia e della spiritualità.
«Il dialogo con la Cattedrale è un dialogo con il monumento che identifica la città e che caratterizza il suo punto focale, la piazza, pur restando primariamente lo spazio del rito. Quando abbiamo inaugurato il museo il vescovo ha detto questa frase: “Inauguriamo un museo perché le nostre chiese non diventino solo un museo”. Significa che le chiese non dovrebbero essere visitate come vetrine, ma vanno rispettate nel loro senso più profondo che è quello liturgico e sacramentale».
È un linguaggio che sa ancora parlare all’uomo d’oggi?
«L’uomo ha sempre bisogno di riti. Non è un caso che i termini e i gesti della liturgia cristiana siano ormai permeati nei luoghi più diversi della cultura popolare. Perfino negli stadi del calcio… E la liturgia da sempre ha usato l’arte per raggiungere gli uomini nella loro natura rituale, simbolica. Anche oggi. L’esempio più evidente è l’adeguamento liturgico della Cattedrale che abbiamo portato a termine nel 2021. Potevamo anche non farlo, però la comunità cristiana ha bisogno di dare spazio al rinnovamento liturgico portato dal Concilio Vaticano II, interpretare la propria identità in una maniera non avulsa dal nostro tempo. Per questo si è scelto di inserire nell’intervento i linguaggi dell’arte contemporanea. Operando scelte rispettose dell’importanza del monumento, ma anche significative. L’arte contemporanea è la modalità espressiva dell’uomo d’oggi. Per noi ancora più espressiva delle forme del passato perché ci appartiene. E anche la Chiesa sbaglierebbe se dovesse pensare che questo linguaggio non racconti l’umanità che siamo».
«L’arte contemporanea
è ancora più espressiva
delle forme del passato
perché ci appartiene»
Per questo avete aperto le porte del Battistero a Cattelan, prevedendo anche qualche sussulto polemico?
«Ammetto che non è stata una scelta così scontata. Ma necessaria per non rischiare di chiudersi nei nostri recinti sicuri, dove stiamo comodi tra noi, ma senza veramente aprirci al dialogo. Certo, siamo consapevoli che il contatto con linguaggi per noi così nuovi sia scivoloso, che serva guardarsi dalla banalità e dagli errori. Tuttavia nei confronti di un’esperienza dell’umano non possiamo pensare di guardarla a distanza. Se non si azzarda il contatto non si può percepire l’impatto di una forma espressiva: è stato così per i contemporanei del romanico, del barocco, degli impressionisti, la street art, nata come un crimine da combattere e oggi ammessa a gallerie, aste e musei».
È questa la situazione che viviamo: troppo attaccati al passato per cogliere il cambiamento?
«In realtà oggi è ancora più difficile perché l’arte (fortunatamente) è per tanti, produce tanto e non in maniera permanente. Parliamo di installazioni: opere che già nella loro natura fluida, sfuggente raccontano la nostra società. Personalmente non mi preoccupa se un’opera oggi piace e domani non più. Quello che conta è percepire le sue coordinate, confrontarsi con il messaggio. E imparare ad ammirarne le forme».
Sta facendo discutere la destinazione della piazza del Comune a concerti di artisti che rappresentano la corrente più radicale della scena trap. Trova che il contrasto anche così ruvido tra contenuti e “contenitori” sia sempre accettabile? Oppure esistono “spazi adatti a…”?
«Trovo sbagliato dire “qui voi no”, ma c’è da interrogarsi sul portare una determinata forma d’arte necessariamente nel “salotto buono”. Forse ci sono linguaggi che non vorrebbero occupare determinati spazi, che probabilmente possono essere compresi se si esprimono lì dove sono nati… Non si tratta del trap o della musica melodica. Il tema è l’evoluzione, il percorso che porta un artista ad esibirsi in una piazza o in uno stadio. Riempire San Siro di per sé non è fare arte. Lo diventa nel momento in cui quella musica abita quello spazio, entra in dialogo con ciò che il luogo rappresenta per la comunità, si trasforma dentro il contesto e contemporaneamente lo trasforma».
È la cultura di una società a generare spazi per esprimersi, oppure è l’identità di alcuni luoghi (magari ereditati dalla storia) a plasmare la cultura di una società, di un popolo?
«Non basta che esista uno spazio: conta come lo vivo, come lo interpreto. Non da solo, ma con gli altri: solo la relazione educa. I luoghi vanno abitati, ma vanno abitati insieme, senza steccati tra generazioni, etnie, categorie. Ciascuno deve voler leggere il messaggio che non conosce, evitando sacche di isolamento».
La relazione è cambiamento.
«Se intendiamo conservare pensando che sia bene che nulla cambi, non portiamo gli spazi a preservarsi, ma a deteriorarsi. L’arte è fatta per interrogarci, per trovare modi nuovi, più veri, per vivere la comunità».
Qual è il compito dell’istituzione (sia essa culturale, politica, religiosa) nella gestione degli spazi di cultura?
«La responsabilità di chi decide non è quella di rispondere a delle richieste, ma di leggere le necessità più profonde».
«La responsabilità di chi decide
non è quella di rispondere a delle richieste,
ma di leggere le necessità»
Sembra più facile, però, aprire un centro commerciale che un museo…
«Questa è una questione di ampio respiro che non riguarda una città e nemmeno solo i processi decisionali. Siamo miopi, non guardiamo una prospettiva più ampia, ma solo l’imminente. Ci lamentiamo se apre un supermercato, poi ci andiamo in massa. Lo abitiamo… Questa società in cui viviamo è molto condizionata dall’aspetto commerciale che la rende egoistica. L’ego personale e quello comunitario sono così forti che condizionano le scelte di indirizzo sui luoghi: un laboratorio culturale non produce ricavi nell’immediato».
Di quali spazi Cremona sente la mancanza?
«Non so se ci siamo luoghi mancanti, piuttosto parlerei di spazi non valorizzati. Forse ci sarebbe bisogno di quelli più informali, più vicini all’espressività popolare, dei giovani soprattutto. Parlo anche della Chiesa: basti pensare agli oratori, a quanto soffrono questo tempo».
Tra i suoi incarichi, fa anche parte del Comitato nazionale degli Uffici dei Beni culturali ecclesiastici e certamente questo le offre uno sguardo più ampio sul tema degli spazi della cultura nel nostro paese. Cosa “ruberebbe” per la sua diocesi?
«C’è tanto, ci sono tante persone che lavorano per questo, anche con fatica. Ma ovunque ci sono esperienze di bellezza che generano cultura. Se guardiamo all’arte contemporanea penso ai centri culturali: la fondazione Lercaro a Bologna, il Paolo VI di Concesio, San Fedele dei gesuiti a Milano, l’associazione Don Liborio in Sicilia e non solo… Ecco, questo tipo di vitalità mi piacerebbe. Spazi ed esperienze di relazione che facciano emergere il bello che esiste».
DALLA RIVISTA…