pace
N.45 Dicembre 2023
In prima linea per i diritti: «Non c’è pace senza giustizia»
Abbiamo incontrato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. Che ricorda con forza che la candela della pace non resta accesa «con il tifo da stadio»
Entrando in una chiesa può capitare di fermarsi ad ammirare, nella penombra di un altare, la magia sprigionata dalla luce dei ceri; quello che può apparire un baluginio durante il giorno, si trasforma in sfavillio al calare delle tenebre.
La stessa suggestione, unitamente alla convinzione che sia “meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”, deve aver spinto l’avvocato Peter Benenson a scegliere, come simbolo di Amnesty International, proprio una candela. Fondata nel 1961, l’associazione si batte, attraverso campagne di sensibilizzazione e mobilitazione dell’opinione pubblica, per far rispettare i diritti umani in tutto il mondo.
Nel simbolo di Amnesty un filo spinato avvolge con le sue spire una candela richiamando, a fianco della luce della speranza, anche le restrizioni di un campo di prigionia. Il lume, seppure apparentemente fragile e minacciato dalle spine, resiste e illumina l’oscurità con la stessa tenacia che si riscontra nel modo di fare, asciutto e cortese, di Riccardo Noury. Abbiamo incontrato il portavoce di Amnesty International Italia, autore di diverse pubblicazioni riguardanti la violazione dei diritti, la pena di morte e la tortura, in occasione di un appuntamento cremonese del Festival dei diritti organizzato da CSV Lombardia Sud ETS.
Chiediamo a Riccardo un approfondimento su una frase pronunciata durante la conferenza: «Dove non ci sono diritti, non c’è pace». «Settantacinque anni fa – spiega – il 10 dicembre 1948, è stata votata da 48 paesi la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nata dal grido “mai più” agli orrori della guerra, puntava a creare un mondo in cui le relazioni fra Paesi fossero pacifiche e la convivenza tra i popoli basata sui diritti. I 30 articoli della Dichiarazione costituiscono, ancora oggi, un importante punto di riferimento. Premettendo che la guerra è il luogo della negazione completa dei diritti (e in questo momento si registrano 60 conflitti in corso), aggiungo che sicuramente la pace non è condizione sufficiente perché si attui il loro pieno rispetto».
Incalziamo con un’affermazione provocatoria, cioè che qualcuno sostiene che negli ultimi 70 anni, in Europa, ha regnato la pace. Noury replica fulmineo: «I Balcani sono parte dell’Europa: non dimentichiamo il genocidio di Srebenica avvenuto nel luglio 1995 durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Aggiungo l’Armenia e l’Azerbaijan, stati membri del Consiglio d’Europa, con il conflitto del 2020/2021, e lo strascico nel 2023 nel Nagorno-Karabakh». Conclude poi, lapidario: «Non c’è la guerra nell’ Europa occidentale, ma è un miopismo consolatorio».
Quando c’è una guerra, si scatena un tifo da stadio:
o stai con uno o con l’altro.
Chi, per ragioni morali o religiose, sta nel mezzo,
viene considerato un outsider
Come stanno i movimenti pacifisti? La mobilitazione per l’Iraq nel 2003 non si può paragonare a quello per l’Ucraina. «Il mondo pacifista è vittima di una narrazione molto ostile, viene descritto non come partigiano della pace, ma come sostenitore di una delle parti in conflitto. Quando c’è una guerra, si scatena un tifo da stadio: o stai con uno o con l’altro. Chi, per ragioni morali o religiose, sta nel mezzo, viene considerato un outsider. Come nel conflitto tra Israele e Palestina, è molto difficile tenere una posizione mediana. Quando si guardano gli attori e non le azioni, i giudizi sono parziali e soggettivi, si condannano alcune azioni e non altre, si solidarizza con alcune vittime e non con altre. L’Ucraina – continua – ci riguarda di più per la vicinanza geografica, ma una conseguenza del doppio standard riguarda il tema dell’uguaglianza: si accolgono i profughi provenienti dall’Ucraina mentre si respinge chi viene dal sud del mondo».
Pensi che ci siano casi in cui l’intervento armato è giustificato?
«Nella storia ci sono tante occasioni in cui la scelta di intervenire si è rivelata una catastrofe, come in Iraq nel 2003 e in Afganistan nel 2001, ma anche altre in cui non intervenire ha provocato dei genocidi, come in Ruanda nel 1994 e in Bosnia nel 1995. Non esiste bianco o nero, la risposta è complessa. Spesso Amnesty International chiede alle Nazioni Unite di inviare missioni di pace usando anche la forza per proteggere i civili».
Come si possono tenere insieme pace e sicurezza?
«Recentemente, durante l’Assemblea Generale dell’Onu che ha approvato la risoluzione che chiede il “cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza”, gli stati europei si sono astenuti: cinicamente, hanno deciso di non intromettersi. In casi come questi perdi ogni credibilità nel poter essere attore di pace. Anche il Consiglio di sicurezza, creato per garantire sicurezza, naufraga a causa del diritto di veto di cinque Stati: si arriva così ad un deficit completo di credibilità e autorevolezza. Rispetto alla domanda su chi deve garantire sicurezza, sono convinto che la società civile debba riprendersi un ruolo centrale».
È possibile raggiungere una “pace giusta”?
«È una frase scivolosa: quando si può definire giusta? Dipende dalla valutazione delle parti in campo: se chiedi ad un ucraino, a un palestinese o ad un israeliano la risposta cambierà. Io richiamo lo slogan con cui è nata la Corte Penale Internazionale: “Non c’è pace senza giustizia”. Amnesty spinge per accelerare le indagini ed emettere mandati di cattura. La CPI è un organo che non ha forze di polizia proprie, la sua efficacia dipende dalla collaborazione degli Stati: se 123 Stati hanno l’obbligo di arrestare una persona e non lo fanno, ciò indebolisce la Corte».
Concludendo, Noury ribadisce: «La giustizia incrina l’impunità, che è l’architrave del non rispetto dei diritti umani. Non ci può essere pace se non c’è giustizia».
“Come una candela accende un’altra e così si trovano accese migliaia di candele – scriveva Tolstoj – così un cuore accende un altro e così si accendono migliaia di cuori”.