radici
N.29 Marzo 2022
La lotta quotidiana tra radici e asfalto
C'è una frattura viva e ribelle che si moltiplica ai bordi delle carreggiate, lungo i marciapiedi, per ricordarci ad ogni inciampo che tra uomo e natura c’è un patto da preservare. Ne parliamo con Andrea Scandolara, agronomo e patologo vegetale
C’è una lotta quotidiana che si consuma senza tempo sotto le nostre suole. È lenta, silenziosa, evidente solo quando il conflitto diventa inconciliabile.
Radici e asfalto: le prime scavano, premono, insistono, rivendicando il terreno sottratto. Il catrame che le ricopre si gonfia come una bolla, si lacera, incrinando l’ordine estetico delle nostre città. Questa frattura viva e ribelle si moltiplica ai bordi delle carreggiate, lungo i marciapiedi, per ricordarci ad ogni inciampo che tra uomo e natura c’è un patto da preservare.
«Le città medievali non avevano alberi: le mura separavano lo spazio a misura d’uomo da quello riservato a boschi e animali selvatici». Andrea Scandolara, agronomo e patologo vegetale specializzato in arboricoltura, ci accompagna in un viaggio a ritroso nell’anima verde di Cremona. «Nei secoli, i centri urbani del nostro territorio si sono gradualmente estesi sottraendo chilometri alle campagne», salvo poi ritagliare fazzoletti di terra tra edifici e strade per restituire un magro tributo alla natura.
Da qualche tempo si cerca d’invertire la rotta, ma la buona volontà non basta senza un’adeguata pianificazione.
«Il volume di terreno destinato all’impianto di nuovi alberi è spesso troppo limitato», spiega l’agronomo. «Le radici degli alberi possono estendersi per metri, ben oltre la proiezione della propria chioma. A differenza di quanto si crede, la maggior parte di queste si trova negli strati più superficiali del terreno, perché più fertile e ricco di ossigeno. Un antico proverbio dice che “Le radici devono sentire il suono delle campane”. Devono respirare: basti pensare al cipresso calvo (Taxodium distichum), che riesce a sviluppare radici simili a colonnine, in grado di emergere dai terreni paludosi verso il cielo per ritrovare contatto con l’aria».
Le radici fungono da àncora, da organi assorbenti, da banca energetica e da ponte per comunicare con le piante vicine, con cui interagiscono chimicamente per scambiare sostanze o informazioni utili alla sopravvivenza. Non per nulla sono la parte più longeva dell’albero: il più anziano ha un’età stimata tra i 13 mila e i 15 mila anni e si trova in California.
Al contrario di altre grandi querce, questa ha l’aspetto di un gruppo di piccoli arbusti: clonando se stessa, la pianta è stata in grado di sopravvivere fino ai giorni nostri, superando in longevità l’Old Tjikko, abete rosso svedese di circa 9563 anni.
«L’età non si legge dal tronco ma dall’apparato radicale – precisa Scandolara, che può sopravvivere alla pianta stessa e addirittura generarne altre». Questo perché le cellule vegetali sono “totipotenti”: «Può bastare un frammento di radice per dare vita ad una nuova pianta. Ci sono casi in cui un fusto tagliato si rimargina grazie all’energia fornita dalle piante vicine, che “curano” la sorella danneggiata».
Le radici hanno un solo obiettivo: sopravvivere. Per anni esplorano il terreno in una conquista silenziosa, che in città può risultare parecchio accidentata: oltre all’invadenza dell’asfalto – troppo vicino al fusto – le piante si contendono lo spazio vitale con altre reti artificiali sotterranee, come fognature, impianti della rete idrica e del gas. Senza contare l’impatto dei lavori stradali e di manutenzione, che tranciano o strappano ciò che incontrano lungo il percorso. «Queste ferite – prosegue l’agronomo – possono causare infezioni che dalle radici risalgono l’intero fusto, compromettendo la stabilità e la sopravvivenza della pianta. Non dimentichiamo che si tratta di organismi viventi: crescono, si espandono, ma a differenza di uomini e animali non possono spostarsi». Adattarsi è la loro tecnica di evoluzione: passeggiando tra centro e quartieri capita di scorgere fusti contorti alla ricerca di luce, o chiome ridotte alla metà della propria estensione. Cambiano forma e dimensioni, tentando di conformarsi a spazi e aspettative che l’uomo ha imposto quando li ha messi a dimora.
«C’è un tempo umano e un tempo della natura, che non coincidono», puntualizza l’esperto. Quando si pianta un albero, occorre immaginare come sarà da adulto per non trovarsi tra vent’anni con un problema alto diversi metri. La soluzione – tagliare – può sembrare ovvia, eppure…«Spesso si abbattono alberi molto alti convinti che siano pericolosi, ma non è così: se sono sani e ben ancorati non ci sono pericoli».
Coltivarli in zone abitate comporta molteplici vantaggi, dall’ombreggiamento alla migliore qualità dell’aria, senza contare il decoro urbano. «Ma prima di piantarne di nuovi – aggiunge Scandolara – è importante scegliere le specie adatte al luogo in cui vogliamo riportare il verde, di cui poi sarà necessario prendersi cura. Tutto ciò va programmato con criterio, consapevoli che anche in quest’ambito le nostre scelte ricadranno sulle generazioni future».