segni

N.51 Giugno/Luglio 2024

riflessi incontra

La meraviglia delle lingue: abiti diversi, pilastri di uguaglianza

Con il professor Davide Astori apriamo una finestra sui "segreti" del linguaggio, i segni che permettono alle differenze di mettersi in dialogo: «Le parole sono straordinarie. Ci permettono di scambiare informazioni, senza portarci sulle spalle l’intero mondo»

«Siamo le nostre lingue, i nostri segni. Senza questi, non ci sarebbe il mondo che conosciamo». Per il professor Davide Astori, l’uomo è (anche) ciò che esprime. Docente di Glottologia e Linguistica all’Università di Parma, ha dedicato la propria vita professionale allo studio dei linguaggi e della loro funzione fondamentale, alla base di ogni epoca e cultura.

«Il “segno” è una parola di origine indoeuropea – spiega – una cosa che indica un’altra cosa. Il termine richiama il tedesco sagen, che significa “dire”. Ferdinand De Saussure sosteneva che un segno è l’unione di un concetto e un’immagine acustica, quindi qualcosa di cui abbiamo esperienza, che descriviamo con un elemento in grado di richiamarne una rappresentazione mentale. È  come una moneta con due facce: da un lato c’è il significante, che rimanda fisicamente a qualcosa, dall’altra l’idea».

Astori fa una piccola pausa di riflessione. «Le parole sono straordinarie. Ci permettono di scambiare informazioni, senza portarci sulle spalle l’intero mondo».

Il segno aiuta a capirsi, a patto di usare gli stessi codici. Alfabeti e sistemi di scrittura sono nati per questo: «Samuel Johnson sosteneva che il linguaggio è l’abito del nostro pensiero. Gli uomini sono tutti uguali, ma indossano culture diverse, usano parole diverse per raccontare in modo oggettivo la soggettività delle rispettive realtà. Per questo è importante imparare a capirsi, a tradurre – dal latino trans-ducere – il proprio pensiero, per raggiungere l’altro o accompagnarlo verso di noi. Attenzione: questo non significa annullare le differenze, ma attraversarle fino ad incontrarsi».

Lo stesso vale per la lingua dei segni, che consente d’interagire sostituendo il canale di comunicazione: non più il suono, ma la luce. «Con le mani posso fare tutto, anche descrivere una musica o recitare una poesia» prosegue Astori, mimando alcuni gesti codificati. «Riconoscere i segni come lingua è stato un passaggio importante: significa sottolineare che la differenza esiste e non sempre è giusto annientarla». Alla parola “integrazione”, Astori preferisce il termine “interazione”, perché «interagire non significa assorbire qualcosa, ma camminare insieme».

«Io esisto se esisti tu:
soltanto rispecchiandoci nell’altro
possiamo ritrovare noi stessi»

La mente torna alla fine del XIX secolo, quando l’idea di una lingua internazionale ha preso piede in Europa. «L’Esperanto fu una grandissima provocazione culturale», sostiene Astori. «Una lingua pensata per essere ‘”prima di nessuno e seconda di tutti”, punto d’incontro e non di prevaricazione. Pensiamoci bene: quando una cultura o una lingua si estende sulle altre tende a limitarle, a schiacciarle, per avvantaggiare chi già la possiede. Ogni volta che si elimina una diversità, scompare una parte della bellezza del creato».

Nell’epoca dell’ecologia, anche i linguaggi meritano una cura particolare: «Vanno osservati e preservati come si fa con ogni tipo di ecosistema», commenta l’esperto. «Ogni volta che perdiamo un briciolo della nostra unicità, perdiamo parti del nostro benessere. Io esisto se esisti tu: soltanto rispecchiandoci nell’altro possiamo ritrovare noi stessi».

È l’aritmetica del rispetto, che ha senso solo quando il pensiero diventa azione, parola viva, da tramandare come la lezione più preziosa. «In passo del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, si dice che “una persona può definirsi maestro se il suo primo allievo ha già cominciato ad insegnare qualcosa a qualcuno”». Astori sorride e si stringe nelle spalle: «Non sono così pretenzioso, non ho nulla da lasciare ai miei studenti… Ma vorrei vederli fare qualcosa, e farla meglio di me. Questo è il segno che mi piacerebbe lasciare».