colori
N.19 Marzo 2021
La rivoluzione (continua) del cinema a colori
Breve storia del colore nella settima arte dai pionieri i technicolor al blu assoluto di Jarman
A ricordare l’importanza del colore nel cinema vengono in aiuto alcuni titoli, come quelli della trilogia di Kieslowski ispirata ai colori (e ai valori) della bandiera (e della rivoluzione) francese o il jarmaniano Blue (1993), testamento monocromo del regista anglosassone. Altre volte è un elegante bianco e nero, che utilizza tutta la gamma dei grigi come The Artist (di Michel Hazanavicius, 2011) o il recente Mank (di David Fincher, 2020), a segnare lo scarto con la visione ordinaria, sempre più assuefatta ai colori accesi degli schermi quotidiani con cui ci interfacciamo (computer, smartphone, televisioni, ecc.) che fanno apparire scialba la visione a occhio nudo del reale.
Ogni epoca sviluppa delle peculiari modalità di percezione del colore. Per provare a coglierla, si può attraversare a grandi falcate la storia del cinema che, seppure in un breve arco di tempo, mostra evoluzioni significative. Fin dai suoi primi anni di vita il cinema va alla ricerca di procedimenti per valorizzare l’immagine in movimento, ancora molto piccola e incerta – se paragonata allo splendore odierno – e soprattutto “piatta”, priva di profondità. Mutuando dalla fotografia, la cui storia è già più avanzata, il cinema adotta dei procedimenti in “postproduzione” per veicolare delle emozioni come il viraggio e l’imbibitura: la pellicola viene messa a contatto con acidi che le danno delle coloriture blu, rosso, ambra, arancione …. a seconda del tempo, del luogo e della dimensione emotiva che viene evocata.
È facile intuire come il rosso si riferisca al fuoco – anche a quello metaforico della passione amorosa -, il blu alla notte, il verde all’incertezza e al pericolo, ecc. L’altro strumento di valorizzazione del colore, il “pochoir”, ossia la colorazione a mano con degli “stencil” di ampie zone di pellicola (che veniva fatta negli stabilimenti di stampa soprattutto da operaie), serve invece a evidenziare l’aspetto spettacolare, come nei film di George Méliès, il grande mago del cinema primitivo. Emozioni e spettacolo, dunque, sono entrambi valorizzati dal colore.
È ciò che avviene, tra l’altro, ne Il mago di Oz (Fleming, 1939), dove il sogno di Dorothy, quello che la porta “over the rainbow”, non può che vestire tutta la gamma cromatica dell’arcobaleno, in uno sfavillante Techicolor, mentre il mondo quotidiano della fattoria del Kansas è rappresentato in bianco e nero. Il genere musicale, nel suo alludere a un mondo onirico, fantastico, antirealistico e spettacolare, è quello che adotta per primo il colore, anche in contrapposizione con i generi “della realtà” – come il noir, ma anche, per esempio, il cinema neorealista – che insistono invece sul bianco e nero. Colori fortemente contrastati, in uno stile “flamboyant” e con forte valenza simbolica contraddistinguono invece il melodramma che, soprattutto nel secondo dopoguerra, si insinua in diversi altri generi cinematografici, per poi trovare la sua più chiara consacrazione nelle storie “a forti tinte” di Douglas Sirk, dove si fronteggiano amore e morte, malattia e religione, legge morale e modernità.
Ed è proprio a quest’utilizzo espressivo del colore che si rifanno i grandi maestri del cinema, per i quali – in una costante ricerca e riflessione sui propri mezzi espressivi – anche la scelta delle campiture cromatiche risponde alla necessità di “dire” qualcosa dei personaggi, degli ambienti, del clima morale, del significato stesso delle loro opere. Gli esempi sono numerosissimi. Citando in ordine sparso, si possono ricordare le grandi opere di Luchino Visconti, da Senso (1954) al Gattopardo (1963), film che presentano delle dominanti cromatiche, nelle varie scene, che fanno riferimento alla pittura europea interpretata in una chiave assolutamente personale e a un forte simbolismo. Oppure si può ricordare Vertigo di Alfred Hitchcock (1958), che associa ai toni del rosso e del verde l’identità doppia (e in definitiva inafferrabile della protagonista), in una continua sovrapposizione tra la fascinazione, l’amore e l’ossessione, il ricordo del passato e il ritorno del rimosso.
Di poco posteriore è Il disprezzo di Jean-Luc Godard (1963), un’opera che riflette sullo statuto delle forme espressive e dei linguaggi già nel contenuto, raccontando la storia di un regista (Fritz Lang) impegnato in una riscrittura cinematografica dell’Odissea. L’ambientazione a Capri conferisce particolare risalto alla luce e al colore – basti pensare alle tonalità del cielo e del mare, alla luce, ai bianchi. Ma Godard, intenzionato a riflettere sull’origine dei linguaggi, anche di quello cinematografico, spiega, a proposito dell’impianto cromatico del film: «Ho utilizzato solo i colori fondamentali, il rosso, il blu, il bianco, il verde… E sempre in toni molto puri. Non bisogna credere che si riuscirà in un’imitazione della pittura semplicemente pasticciando coi colori, sarebbe insensato. Bisogna filmare le cose con semplicità».
All’opposto Antonioni, nel suo Deserto rosso (1964), il primo realizzato a colori con Carlo Di Palma, rifugge da qualsiasi mimetismo del reale per esprimere la dissociazione della protagonista con il mondo, la sua nevrosi che investe il suo rapporto con l’ambiente circostante.
Una tavolozza di posizioni diverse, di significati, di modalità di lavoro (frutto di una collaborazione tra i registi e i loro direttori della fotografia) che ci riporta al presente dove il colore – con la complicità dei mezzi di cui si può giovare l’immagine digitale, ma anche con il progredire delle competenze sulla percezione del colore – si tramuta in una “questione di stile”, a volte in un gioco, favorito da attività di postproduzione (color correction e dal color grading), che operano su intensità e saturazione anche in chiave psicologica. La piacevolezza della “palette”, ossia la tavolozza cromatica organizzata in modo coerente, atta a suggerire precisi stati d’animo, si sostituisce alla ricerca di significati profondi, oserei dire a quella “ontologia del colore”, che caratterizzava gli anni Sessanta e Settanta.
Oggi abbiamo strumenti, come la pagina Instagram @ColorPalette. Cinema, che ricostruisce la palette cromatica di scene di film e serie tv accostandola agli stati d’animo prevalenti, che ci guidano per mano a capire il funzionamento cromatico di molti film contemporanei, e non solo delle fiabe eleganti e pastellate di Wes Anderson.
Ma forse l’esempio più estremo e provocatorio, rispetto alla forza spiazzante e magnetica del colore nel cinema – un colore che non è più spettacolo o emozione, ma una forza assoluta, totalizzante, visionaria – è quello di Blue di Derek Jarman, con cui si apriva questa riflessione: un film in cui un monocromo Klein Blue scorre mentre la banda sonora alterna liriche, rumori e descrizioni della malattia che sta consumando il regista. Un film-testamento, dopo il quale non è più possibile guardare al colore sullo schermo senza pensare alla sua immensa profondità.
Time is what keeps the light from reaching us. The image is a prison of the soul, your heredity, your education, your vices and aspirations, your qualities, your psychological world. I have walked behind the sky. For what are you seeking? The fathomless blue of Bliss. To be an astronaut of the void, leave the comfortable house that imprisons you with reassurance. Remember, To be going and to have are not eternal – fight the fear that engenders the beginning, the middle and the end.
Il tempo è ciò che impedisce alla luce di raggiungerci. L’immagine è una prigione dell’anima, della tua eredità, della tua educazione, dei tuoi vizi e delle tue aspirazioni, delle tue qualità, del tuo mondo psicologico. Ho camminato inseguendo il cielo. Che cosa stai cercando? Il blu insondabile della Beatitudine. Per essere un astronauta del vuoto, esci dalla comoda casa che ti imprigiona rassicurandoti. Ricorda, l’andare e l’avere non sono eterni: combatti la paura che genera l’inizio, la metà e la fine.