cuore
N.33 Settembre 2022
Musica con… e senza cuore
Viaggio tra le connessioni emotive tra chi compone e chi ascolta musica (e parole). Dal melodramma del divin Claudio al... centro di gravità permanente
No, è meglio non cadere nel tranello di legare automaticamente “musica e cuore”, anche se a prima vista sembrerebbe così immediato e ovvio; la musica esprime un gamma talmente vasta di stati interiori (e anche qui è meglio non usare la parola “sentimento”) da far risultare troppo semplicistico il binomio. Probabilmente è ancora un retaggio ottocentesco, quello di pensare che la musica privilegi l’aspetto commovente e/o intimistico dell’espressione, quasi come se gli eroi e le eroine dei nostri melodrammi fossero lì per evidenziare il senso profondo della musica (un Puccini sarebbe il Gran Maestro dell’emozione, non c’è da dubitarne). Ma no, la musica esprime tutto il ventaglio delle disposizioni umane: c’è musica per ballare, musica per ridere, musica per piangere, musica per pensare, musica per concentrarsi, musica per meditare e non vi sono confini in grado di fermare quel fiume libero che è la musica, perché in essa si espandono i nostri sensi, vi si rispecchia la nostra parte emotiva e personale, vi compare quell’indicibile che non si incasella in frasi logiche.
Non volendo quindi cadere nell’inganno della musica strappacuore, si può tentare di mostrare quanto di cervello vi sia nella musica che più o meno consapevolmente arriva ad esprimere stati emotivi. Sicuramente non tutti conoscono la “Teoria degli affetti” d’epoca barocca, cioè quell’insieme di espedienti retorici che usati secondo regole stilistiche creavano vari stati d’animo negli ascoltatori; le emozioni, individuate da Cartesio in sei declinazioni (meraviglia, amore, odio, tristezza, gioia e desiderio), erano l’oggetto a cui si rivolgeva la musica, soprattutto a partire da Monteverdi in poi con la nascita del melodramma; infatti, in questo particolare momento storico musicale, la parola diventa “signora dell’armonia” (cioè viene posta in evidenza rispetto alle note, mentre prima era sepolta sotto gli intrecci delle tante voci simultanee della polifonia) e la scena teatrale si offre come riflesso del mondo delle passioni umane per mezzo della musica.
Proprio nelle opere di Monteverdi compaiono tecniche musicali particolari collegate alla sfera emotiva in modo che il connubio musica e parola risulta sbalzato in tutta evidenza per creare sintonia con chi ascolta. Non potendo fare affidamento sulle necessarie competenze per entrare in linguaggi lontani dalla nostra epoca, basti ricordare che nella sua musica le tre qualità naturali della voce, “alta, bassa o mezzana” – che noi oggi chiamiamo soprano/tenore, basso o mezzosoprano – corrispondono alle tre qualità dell’animo, ira, temperanza e umiltà; dal punto di vista musicale, lo stile “concitato, quello “molle” e quello “temperato” corrispondono a tre diversi stati d’animo: il furioso, il tenero e il moderato. Ad esempio, se un testo riguarda un combattimento, lo stile musicale è “concitato”, fatto di ritmi incalzanti, di note di brevissimo valore e sequenze di accordi dissonanti. Nei passaggi più descrittivi, invece, viene impiegato lo stile “temperato”, giri melodici più distesi e accordi consonanti.
Si potrebbe pensare che Monteverdi seguisse un libro di regole, un bel manuale di istruzioni per l’uso, chessó, all’epoca erano in circolazione le Istituzioni armoniche di Gioseffo Zarlino (1558) o il Dialogo di Vincentio Galilei nobile fiorentino della musica antica, et della moderna (1581). C’è da dubitarne: la teoria non è mai stata di aiuto alla pratica e normalmente questa ha seguito strade proprie; che forse sono semplicemente un paio: quella che porta diritto alla lingua parlata correntemente per coglierne le valenze espressive, e quella che permette al compositore di cercare sintonie con l’ascoltatore attraverso le trame tecniche di quel linguaggio così indefinibile che è la musica. Sembra semplice, eppure non tutti ci riescono. Anzi, forse potremmo trovare la genialità di un musicista non nella somma di conoscenze tecniche o nella quantità di musiche composte o nell’importanza data dagli storici; più prosaicamente, è la sua disponibilità a sintonizzarsi sulle corde umane ieri come oggi a stabilirne la validità e la persistenza; Bach entra nella modernità per l’Aria sulla quarta corda più che per l’osannata Arte della Fuga, ossia una melodia nata per caso più che per una complicatissima riflessione aritmetico-musicale. Morricone resta indimenticato per Gabriel’s oboe, più che per tanta sua musica “seria” letteralmente incomprensibile.
Ma torniamo alla nostra idea di vedere come la musica realizzi connessioni, mostrando un esempio che segue da una parte la strada del senso delle parole, dall’altra la via delle note trovate dall’artista, quella che crea cantabilità, gradevolezza, piacevolezza, armonia, consonanza dentro a uno stile pre-compreso, ossia attraverso la capacità di mettersi sulla lunghezza d’onda uditiva di un ascoltatore del proprio tempo. Tutti avranno in mente Cerco un centro di gravità permanente (1981) di quel geniaccio che fu Franco Battiato. Proviamo a vedere come ha costruito la canzone. L’introduzione immette in un’atmosfera “dance” tipica dell’epoca con le sue classiche 8 battute; nulla di più scontato e normale: tradotto in elementi di retorica è l’exordium, momento in cui si cerca un terreno comune con l’ascoltatore. Inizia il testo, che sembra ed è un’accozzaglia di immagini provenienti dalle più disparate zone del mondo (“Una vecchia bretone… furbi contrabbandieri macedoni… gesuiti vestiti come bonzi”); la musica sottostante accompagna con un ribattuto che dà l’idea di inquietudine, come un battito cardiaco a fior di pelle; la melodia è frastagliata, ha alti e bassi, la sequenza di accordi sottostante è del tutto inusuale per non dire stramba: l’insieme che ne deriva è di disorientamento sia nelle parole che -anche se non ne saremo mai consapevoli del perché- nella musica.
Ed ecco il ritornello: la melodia si muove su pochissime note (“Cerco un centro di gravità permanente… cambiare idea sulle cose sulla gente: due note in tutto!”), quindi è rassicurante, immediatamente memorizzabile, mentre gli accordi si susseguono nel più ovvio e banale giro di canzone sentito migliaia di volte: le parole si trovano rispecchiate (chissà se volontariamente o no) nella musica, in quel centro di gravitazione che nel caos multietnico del mondo di oggi viene reclamato dal cantante e da tutti noi. La ripetizione del ritornello poi (vogliamo chiamarla con il termine retorico mimesis?) è affidata a un coro di uomini: le parole del cantante vengono fatte proprie da tante persone, come a creare un passaparola da uno a tutti gli ascoltatori che si identificheranno con quel coro. Il resto della canzone è un’amplificazione (confirmatio), ossia un ribadire e confermare quanto espresso, perché è nella ripetizione/corrispondenza delle parti che si realizza la forma musicale ovvero la struttura del bello armonico.
È probabile che i teorici riusciranno a imbrigliare in schemi la musica d’oggi come si è fatto per tanta musica del passato; e infatti, è musica che ha la stessa genialità e profondità di quella di un Beethoven o di un Mozart: cambiano solo i mezzi tecnici, le connessioni emotive restano identiche.