silenzio

N.05 Novembre 2019

LABORATORIO

Il segno della musica nella stanza senza eco

L'esperienza della camera anecoica dove il laboratori di acustica musicale presso il Museo del Violino studiano la purezza del suono in un ambiente privo di rumore E dove un quartetto d'archi non è più quello che pensavi

Siamo stati al Museo del Violino per cercare la chiave segreta del silenzio. E una porta, forse, l’abbiamo aperta. È quella della Camera anecoica (senza eco) dove un team di ingegneri e ricercatori del Laboratorio di Acustica Musicale del Politecnico di Milano acquisiscono e misurano timbri e vibrazioni degli strumenti. Uno spazio piccolo – 5 metri per 8 – dove avviene una magia: la magia di un ambiente non contaminato dai rumori esterni, dove i musicisti possono registrare in assoluto silenzio.
Seduti in mezzo a questa stanza, circondati da 17 casse acustiche di livello superiore («Sistema di rendering Ambisonic», precisa il nostro accompagnatore) ascoltiamo un quartetto di archi suonare e l’immersione nella musica è una sorpresa assoluta.
Entrando sembra quasi di soffocare: non siamo abituati all’assenza di rumore. Poco a poco però diventa familiare e avviene una scoperta: il silenzio permette l’ascolto.
Del resto se spesso sentiamo il bisogno “di silenzio” è in effetti perché il silenzio non è il nulla. L’assenza di suoni, ma è qualcosa. Altrimenti non ne avvertiremmo la necessità, non lo sognerebbero i musicisti o gli insegnanti immersi in una mensa di bambini festosi e urlanti. E così, seduti in quella stanza, abbiamo capito che la musica è rapporto con il silenzio, perché ci predispone all’ascolto, all’attesa, a desiderare che quelle note arrivino e ci investano con tutta la loro potenza, dolcezza, profondità. E quando la musica è finita, rimane qualche istante ancora di sospensione, un silenzio che diventa carico di emozioni e pensieri.
Mi torna alla mente quella volta che la professoressa di musica ci portò al Ponchielli per assistere al Don Giovanni di Mozart. Prima dell’entrata in scena, ci aveva avvertito più volte: «Non fate rumore», «Non chiacchierate», «State attenti». Così ci stava insegnando che il silenzio esteriore che si chiede prima del sipario, non è solo la condizione per iniziare un’esecuzione, ma è l’ambiente in cui può emergere il silenzio interiore di ciascuno. A 13 anni come a 34. E quando la musica si spegne, al netto degli applausi, rimane qualcosa dentro. Perché il silenzio di arrivo non è uguale al silenzio di partenza. La musica muove qualcosa, qualcosa che non finisce con il suono degli archi ma che continua come un’eco dentro di noi. Una cosa straordinaria a dirsi.
Ma come viene resa possibile? Usciamo dalla sala anecoica («Camera a riverberazione controllata con comportamento diffusivo», precisa ancora la nostra guida) ed entriamo nel laboratorio vero e proprio.
Come funzionano le cose qui ce lo spiega Fabio Antonacci, ingegnere e responsabile tecnico, che ci accompagna in questa avventura: «Il Laboratorio di acustica musicale è nato nel 2013 grazie all’impulso del dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, con la collaborazione del dipartimento di Meccanica, e con il contributo finanziato dalla Fondazione Arvedi Buschini e dalla Fondazione Cariplo. Oggi ci lavorano sette dottorandi, tre post-doc, un ricercatore e il professor Sarti che coordina il tutto».
Il team – che svolge un lavoro eccezionale – funziona in maniera eccellente anche grazie alla collaborazione con il Laboratorio “Arvedi” di analisi diagnostiche non invasive dell’Università di Pavia, con il quale condivide parte degli spazi.
«Il nostro compito qui – spiega Antonacci – è quello di continuare una ricerca a più livelli che possa migliorare l’attività liutaria cremonese. Ci concentriamo su tutte le fasi di generazione del suono, studiando le proprietà fisiche ed acustiche degli strumenti, in particolare i violini (antichi e nuovi). Abbiamo dispositivi che ci aiutano nelle analisi vibrometriche, della radianza acustica e della timbrica e registriamo i suoni anche in 3D, grazie ad un microfono Eigenmike a 32 capsule e ad Ambisonic, il sistema di casse che riproduce il campo spaziale catturato dal microfono».

Quando la musica si spegne
rimane qualcosa dentro
perché il silenzio di arrivo
non è uguale a quello di partenza

La prima fase del lavoro consiste nel comprendere come il suono viene generato e propagato dal violino. I ricercatori hanno analizzato la risposta timbrica di uno strumento contemporaneo nei passaggi più rilevanti della sua lavorazione, da quando è legno grezzo a quando è prodotto finito. Attraverso l’uso di un martelletto e di un accelerometro è stato possibile registrare e classificare le vibrazioni della cassa armonica di violini in costruzione ma anche degli Stradivari («con le dovute cautele», precisa l’ingegnere). Si è compreso come, data la particolare conformazione geometrica dello strumento, alcune proprietà timbriche vengano enfatizzate e altre vengano rese meno evidenti.
Una delle cose più difficili è stata la misura del timbro degli strumenti. «Ci siamo resi conto che alcuni termini usati in musica per definire un timbro erano simili, ma non identici. Un timbro può essere caldo, dolce, profondo, legnoso… ma come ottenere una definizione univoca? Abbiamo realizzato allora una serie di interviste mirate a musicisti e liutai chiedendo loro come avrebbero descritto il suono di questo o quello strumento. Sulla base delle rispose abbiamo realizzato un dizionario che mette in relazione tra loro i termini. In un secondo passaggio abbiamo registrato un corpus di suoni acquisiti da violini antichi e moderni (sono stati registrati 13 strumenti antichi – 3 Amati, 2 Guarneri del Gesù e 7 Stradivari – e 15 violini moderni dalla collezione del Museo del Violino e della Scuola Internazionale di Liuteria “A. Stradivari” di Cremona), suonati da un musicista professionista e secondo un protocollo specifico. Poi abbiamo domandato a un gruppo di liutai e di violinisti di classificare le qualità timbriche di ciascun violino secondo un questionario standard, dove dovevano collocare il suono come timbro in una scala da 0 a 10. Contemporaneamente, un software ha elaborato i dati acquisiti. Così ora è il computer – con grande precisione – a poter predire il timbro di un violino». A dargli un nome.
Un risultato straordinario, perché ogni strumento è unico e a sé, e queste ricerche permetteranno di realizzare violini sempre più accurati e anche di trovare luoghi dove il loro suono, durante un concerto, possa raggiungere la sua massima espressione. Passando dal silenzio che lo precede. E di quello che ci aspetta.