noi
N.40 aprile 2023
“Noi del Cambo” al sicuro in un posto speciale
Come vive all'ombra delle torri, i suoi caratteristici grattacieli di edilizia popolare, la comunità di quello che veniva chiamato "il quartiere 113", il Cambonino, dove le differenze trovano casa tra il verde delle piante e il rosso del campetto
Se non si vede bene che con il cuore, allora bisogna accettare il rischio di farsi guidare dai suoi battiti; e questi aumentano intensamente mentre ci muoviamo verso la direzione da lui indicata: il quartiere Cambonino.
È una zona periferica, solitamente guardata con sospetto dai cittadini, dove si intrecciano problematiche come la disoccupazione, le tensioni tra diverse culture, la lontananza delle istituzioni. I media locali se ne occupano solo per riportare i malumori dei suoi abitanti nei confronti di veri (o presunti) disservizi.
Allora cosa ci spinge, in un pomeriggio assolato, a cercare parcheggio in viale Cambonino? Forse perché, come afferma l’antropologo Marc Augè, pensiamo che le periferie, “proprio perché sono posti difficili, sono posti vivi.” Inoltre concordiamo con quanto disse Papa Bergoglio, intervistato dagli abitanti del quartiere Carcova di Buenos Aires: “La realtà si capisce meglio non dal centro, ma dalle periferie.”
In particolare vogliamo comprendere, dialogando con chi incontreremo nelle strade e nei parchi del quartiere, se esiste un sentimento di appartenenza al luogo. Esiste un ‘noi’?
«Noi? – riflette Lorenzo, 26 anni – Dipende da chi lo dice». Poi, spaziando con lo sguardo sulla piazza, prosegue: «La frase “vengo dal Cambo” la dicono soprattutto i ragazzi ma, sicuramente, chiunque può confermare che siamo in un posto speciale». Ecco, subito ci si presenta l’occasione per capire se il sentimento di appartenenza che vogliamo indagare, sia reale o sia solo un’idea romantica.
«Il Cambonino, geograficamente, è un po’ isolato dalla città, inoltre non ci sono eventi che attirano qui gli abitanti degli altri quartieri; per questi motivi è difficile che tu veda passare per le strade qualcuno che non vive in zona. Conoscere tutti, ci fa sentire a casa».
Questo sentimento è condiviso? «Gli anziani sono un po’ diffidenti nei confronti delle persone di origine straniera; a me il fatto che ci siano tante culture non crea alcun problema, forse perché sono giovane, forse solo perché ho un approccio diverso». Poi, con un sorriso affabile, conclude: «Io qui sto bene, mi sento sicuro, è un posto tranquillo. Certamente non è come anni fa, ma l’etichetta è difficile da togliere».
La signora Laura interviene per svelarci cosa stava scritto su quella “etichetta”: «Sa come lo chiamavano il Cambonino? Quartiere 113!» La narrazione, dopo un avvio illuminato dalla sinistra luce dei lampeggianti della polizia, prende repentinamente un’altra piega: «Quando mi sono trasferita, nel 1981, mi sono trovata subito bene perché, a me che non amavo la città, è sembrato di arrivare in un piccolo paese; c’era tutto, dalla farmacia alla parrucchiera, dal tabacchino alla merceria. Ma la cosa che mi piaceva di più e mi piace ancora oggi – aggiunge indicando orgogliosa gli alberi frondosi sotto i quali siamo seduti – è il verde».
Le fa eco Cristina, catechista, insieme alla signora Laura, presso la parrocchia di San Giuseppe: «Quando sono arrivata, nel 1977, avevo nove anni; non c’era nulla, solo le “torri”. Nonostante quello che si dice del quartiere, sono sempre stata bene. Certamente, nel tempo, c’è stato un cambiamento: ci sono tanti anziani rispetto a venti anni fa e, nelle case Aler, sono arrivati molti stranieri».
«Le torri – interviene Laura citando un luogo iconico del quartiere – sono una realtà difficile perché li hanno ammassati tutti lì».
Cristina rintuzza la collega: «Alla fine siamo tutti esseri umani, solo con comportamenti diversi; io non ho paura e non l’ho mai avuta. La sera, quando devo andare in oratorio, sono tranquilla».
Conclude poi, con piglio battagliero: «Non cambierei mai quartiere: passano spesso i mezzi pubblici, abbiamo vicino il centro commerciale, le forze dell’ordine pattugliano regolarmente e poi abbiamo l’agente Sforza, è proprio un tesoro!». Salutandoci, aggiunge con rammarico: «Peccato solo che ci siano pochi bambini cristiani: non so se l’anno prossimo riusciremo a fare la classe di catechismo».
Insieme al fotografo attraversiamo il quartiere per andare dove, sicuramente, potremo avvicinare qualche giovane. Tra viale Cambonino e via Panfilo Nuvolone, c’è un luogo conosciuto da tutti i ragazzi della zona; sullo stradario troverete piazza Francesco Riccardo Monti ma, chi vive in zona, lo chiama semplicemente “campetto rosso”.
Circondata da alberi rigogliosi, decorata lungo il perimetro da scritte e graffiti, ecco davanti a noi aprirsi una spianata in cemento di colore rossastro. Tutti i giorni le malconce portine in metallo vedono sfidarsi a calcetto, senza differenza di genere, provenienza o età, squadre tanto improvvisate quanto agguerrite.
Avvistiamo, oltre la zona delle panchine, occupate dalle signore anziane e da alcune donne velate che chiacchierano tenendo d’occhio i figli piccoli, N. e G.
Hanno 17 e 18 anni, non vogliono che nell’articolo compaiano i loro nomi, men che meno le iniziali: «Sei matto? – mi apostrofa N. – sono l’unica in quartiere con il nome che inizia per quella lettera, capirebbero subito chi sono!». Non accettano nemmeno di essere fotografate: «Ma mi vedi? Sono praticamente in pigiama», chiosa G. «Poi non mi sono nemmeno pettinata», protesta N.
Inutile constatare quanto, “in pigiama e spettinate”, siano comunque bellissime. Ma questo è solo il nostro parere; sono inflessibili: niente foto. In compenso veniamo coinvolti in una piacevole chiacchierata che terminerà solo al calar del sole.
Allora, ragazze? Esiste un “Noi del Cambo”? «Ti spiego – attacca con la sua travolgente energia G. – esiste una classifica dei quartieri di Cremona; il primo posto da chi è occupato?». «Dal Cambonino, è palese!»” la incalza l’amica. Per curiosità, come prosegue la hit parade? «Al secondo posto c’è lo Zaist… gli altri non classificati», conclude ridendo G.
Proviamo a indagare il motivo di questo primato indiscusso. «Certamente è soggettivo – riprende G. – ma non è solo perché ci viviamo, è per i legami e le relazioni che ci sono tra noi ragazzi che siamo cresciuti insieme; è una vera e propria fratellanza». «E poi noi abbiamo lo stile street!» conclude N.
Poco lontano il fotografo chiacchiera con alcune signore anziane che, a mezza voce, dichiarano: «Se stia mèi cui teròon che cui singheen». G. ribatte sicura che «Gli zingari non danno problemi, stanno tra loro, con quelli del mio palazzo vado d’accordo».
Ma allora il razzismo è solo una leggenda? «Diciamo di sì, ma quando si arrabbiano con noi ci gridano “torna nel tuo paese”; al che io tiro fuori la carta d’identità italiana e chiedo: dove dovrei tornare?». Qui. Al Cambo. Dove culture e storie diverse, faticosamente, si incontrano e crescono insieme, alimentando con la propria linfa radici simili a quelle dei grandi alberi che, placidi, sovrastano il campetto rosso e la sua variopinta popolazione.