mattoni

N.55

rubrica

Quando il film è un mattone… pazzesco (ma di qualità)

Dalla leggendaria Corazzata Kotiomkin di fantozziana memoria fino alle avanguardie più estreme, il pubblico affibbia l'etichetta alle pellicole più lunghe e "pesanti". Ma se il "mattone" è di qualità e lo spettatore ha gli strumenti per interpretarne la forma austera, allora è quella pesantezza può dare accesso alla profondità

Derivato forse dalla letteratura, per la somiglianza della forma con quella di un libro voluminoso, il “mattone”, nel suo significato figurato, è un simbolo di pesantezza e noiosità. Anche nel cinema.

Come non pensare a Il secondo tragico Fantozzi (di Luciano Salce, 1976) che ha eretto uno dei più grandi capolavori della storia del cinema a simbolo della noia da parte dello spettatore? Tutti ricordano gli impiegati della Megaditta costretti alla ripetuta visione delle 18 bobine de La corazzata Kotiomkin di Serghei M. Einstein. Finché, sottoposti all’ennesima proiezione proprio durante la finale di un’importante partita calcistica Inghilterra-Italia, si ribellano. Capitanati dal ragionier Fantozzi che, nel dibattito dopo il film, in un moto di coraggiosa iniziativa pronuncia il celebre verdetto: «La corazzata Kotiomkin è una …. pazzesca!», gli impiegati legano il potente intellettuale Guidobaldo Maria Riccardelli, organizzatore delle proiezioni d’essai e, dopo averlo messo in ginocchio su un tappeto di ceci (contrappasso delle punizioni subite), lo costringono ad assistere all’incendio della copia privata del capolavoro e alla visione ripetuta per 48 ore di film di pessimo gusto, come Giovannona coscialunga e L’esorciccio.

Come di consueto, Fantozzi associa nel suo umorismo amaro iperbole e parodia. Così il mito de La corazzata Potëmkin (e non Kotiomkin!) rivive all’insegna dell’esagerazione, dal momento che il film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (e non Einstein!) dura “solo” 75 minuti e non 18 bobine. Quanto poi ai valori estetici del film sovietico, vanno colti nell’ambito della forte sperimentazione formale dell’avanguardia, di cui rappresenta indubbiamente una delle punte più avanzate. Ma, come sempre succede per la parodia, il suo effetto è quello di sottolineare – in qualche modo – l’importanza del testo originale: la notorietà del film ejzensteniano anche presso i giovani deve molto alla fama acquisita grazie a Fantozzi.

Certo, la percezione di un film “mattone” risente dell’epoca che lo produce e delle sue successive riletture. Basti pensare a Il sorpasso (di Dino Risi, 1962), e alla sequenza in cui Bruno Cortona, lo spavaldo personaggio interpretato da Vittorio Gassman, parla dei suoi gusti culturali al giovane e più riflessivo studente Roberto (Jean-Louis Trintingant), esaltando la canzone di Modugno: «Quest’uomo in frac me fa impazzì. Perché pare ‘na cosa da niente, invece, aò, c’è tutto: ‘a solitudine, l’incomunicabilità, poi quell’altra cosa – quella che va de moda oggi… – l’alienazione, come nei film di Antonioni. L’hai vista L’eclisse? Io c’ho dormito. ‘Na bella pennichella».

La battuta non è da interpretare come una critica al film di Antonioni: piuttosto definisce un target di spettatori del celebre regista che esula dal personaggio smargiasso e caciarone di Gassman.

Regista e sceneggiatore sottolineano come il film-mattone non esista in sé, ma venga piuttosto definito tale dalla comunità degli spettatori, in particolare da coloro che non possiedono gli strumenti per apprezzarlo. Non si tratta solo (o tanto) di un’attrezzatura di tipo cognitivo, ma – per esempio – del tempo necessario per vedere film che in generale hanno una lunga durata, delle predisposizioni soggettive o del momento, per cui si sente il bisogno (o la voglia) di determinate emozioni e non di altre.

Il film-mattone è quasi sempre legato alla durata: siano le otto ore e cinque minuti del celebre Empire di Andy Warhol (1965), dedicate all’unica inquadratura dell’Empire State Building ripreso nell’alternanza di luci che si accendono e spengono, oppure le 857 ore (pari a 35 giorni e 17 ore) del più recente Logistics, di Erika Magnusson e Daniel Andersson (2012): una sorta di documentario dedicato a un contapassi, inseguito dalla macchina da presa a ritroso dall’atto di acquisto fino alla Cina, luogo d’origine dei suoi componenti. Certo, in entrambi i casi si tratta di film sperimentali, che si collocano al confine con l’ampio – e differente – ambito dell’avanguardia. Oggi, nell’epoca delle serie, e soprattutto grazie alla vasta scelta di strumenti di riproduzione che sottraggono lo spettatore all’obbligo di uno spazio-tempo di fruizione definito (come avviene nella sala cinematografica), la durata di un film (o un audiovisivo) non rappresenta più un problema; anzi, spesso costituisce un elemento di fidelizzazione dello spettatore che ne centellina il contenuto in più tappe.

Ne è prova Heimat, un insieme di film realizzati da Edgar Reitz nell’arco di oltre trent’anni, che riguardano la storia di una famiglia (la famiglia Simon) e di un luogo (Schabbach, un posto immaginario nella regione della Mosella) nel corso del ventesimo secolo. Composto di un prologo, tre serie di film, un epilogo e una vicenda parallela, questo insieme di film ha una durata complessiva di 59 ore, lungo le quali si delinea l’itinerario di una storia minuta, che si dipana a ridosso delle persone, ma che possiede insieme una consistente valenza simbolica.

L’altra prerogativa dei mattoni cinematografici è la scarsa densità di eventi: il senso di noia è spesso determinato dalla mancanza di azioni, o dalla loro lentezza. Chi guarda spesso si smarrisce, distoglie l’occhio dai protagonisti per vagare, sullo schermo, in cerca di altri punti di interesse, o attiva un’attenzione maggiore, più acuta, che si sposta sulle minime variazioni, sul senso profondo di immagini capaci di suscitare una domanda e, forse, una risposta nello spettatore.

È ciò che avviene – ad esempio – ne Il cavallo di Torino degli ungheresi Béla Tarr e Ágnes Hranitzky (2011): un film di oltre due ore, girato in bianco e nero e composto di sole 30 inquadrature. Si tratta delle vicende di un fattorino che vive con la figlia in una baracca sferzata da un vento persistente, trascorrendo il tempo in una sequela di gesti ripetuti, mentre il mondo sembra consumarsi e andare verso la rovina. Una metafora potente, preceduta dall’episodio che dà il titolo al film: l’incontro di Nietzsche con un vetturino che frusta violentemente un cavallo, e che suscita nel filosofo il desiderio di difenderlo e quindi di conoscere il futuro destino dell’animale.

In questo senso di attesa, di sospensione, ogni tanto qualcosa accade: per esempio la presenza di un visitatore che parla dell’umanità, del suo complicato e difficile destino di distruzione. Forse un retaggio di Nietzsche e del suo pensiero, così pessimista da far risultare insignificanti tutte le azioni, anche la difesa stessa del cavallo, perché tutto concorre – come quel vento insistente e fastidioso – alla fine, senza la possibilità di vie di fuga.

La severità della forma è al servizio di una “pesantezza” che suscita interrogativi profondi. Ed è questo, in fondo, il lascito che i veri “mattoni” cinematografici (di qualità) regalano a coloro che hanno la pazienza di scoprirli, di accostarli, e di vederli fino in fondo.