bontà

N.53 Ottobre 2024

educazione

Sei ancora qui, irremovibile. Bontà.

Un insegnante entra ogni giorno in una classe di adolescenti. Spesso le sfide spingono a cedere, ma nella memoria, viva, torna la figura di un padre che sapeva essere saldo, amare e dire "no"

Ho un’immagine perfettamente conservata nel cassetto dei ricordi: il cortile della scuola, un ghiaietto lavato in calcestruzzo alla buona, di quelli che se cadi urla anche chi ti è vicino, e mio padre. Immobile, vicino alla porta vetro dalla cornice in rovere scuro, con un montgomery grigio lasciato aperto e un sorriso velato in volto. I bambini corrono, si inseguono scoordinati, giocano, si fermano improvvisamente, sussurrano e poi urlano. In un istante però tutto si ferma, viene intrappolato in uno scatto immortale, etereo.

Ho incontrato la bontà sotto diversi aspetti, forme, persone, gesti. L’ho sentita nel profumo di mandorla, strofinando il viso sulla morbida pelle di mia madre. L’ho osservata con la coda dei miei occhi madidi di lacrime, quando una delle mie sorelle alzava un lembo del lenzuolo sotto il quale mi ero rifugiato, allungava il braccio per accarezzarmi, portava parole di conforto.

Erano bontà limpide, tangibili.

Papà era un uomo severo, rigido, di poche parole. Per la maggior parte della mia infanzia non mi sono reso conto della sua forza e per quasi tutta l’adolescenza l’ho definito cattivo e anaffettivo, proprio perché mi rendevo bene conto della sua forza, ma non avevo armi per contrastarla.

Mi rendevo bene conto della sua forza,
ma non avevo armi per contrastarla

Papà mi lasciava senza cartucce per il mio fucile perché, quando sparavo si prendeva la pallottola e sanguinava in silenzio. Non cadeva, non si spostava, restava nella sua posizione, irremovibile.

Mi ci sono voluti anni per capire il senso di quell’intervento educativo.

«Papà esco, posso tornare dopo mezzanotte?»

«No, alle undici e cinquantanove ti voglio in casa.»

«Ma papà i miei amici tornano tutti all’una e sono anche più piccoli di me!»

«Non mi interessa. E se vai avanti diventano le undici e trenta. Buona serata»

Una porta che sbatte, un’imprecazione, il corrimano delle scale che incassa un pugno a martello, la rabbia di un ragazzo che si consuma nella fretta con la quale scende le scale del palazzo.

Dopo tanti anni passati e qualche anno che papà non c’è più, il suo respiro è ancora nelle mie giornate. Lo porto tra i banchi della scuola dove insegno, nei miei confronti quotidiani con le incomprensioni, nell’educare le mie figlie che, come da copione, mi mettono alla prova costantemente.

Cosa significa essere buoni? Che connotato ha e che funzioni assume, il concetto di bontà in ambito educativo, formativo?

Oggi viviamo un’epoca dove il disagio sociale dei nostri figli, soprattutto adolescenti, appare come un’immagine dal tratto negativo quasi consolidata o comunque più volte riconfermata, dai vari canali mediatici che ci bombardano, apparentemente ricchi di contenuti superficiali, frivoli, talvolta preoccupanti. L’idea che si è andata costruendo è di ragazzi che hanno scarsi interessi, che vivono nell’idea di un futuro fatto di soldi facili e che si sentono padroni del mondo e liberi di fare ciò che vogliono. Sono venuti meno concetti come il rispetto delle figure adulte, dell’ambiente che li circonda e che essi stessi vivono, degli spazi comuni e condivisi. Sembrano diventate un lontano ricordo le importantissime emozioni di paura e di vergogna, che fungono da freno inibitorio in una “stupidisia” adolescenziale che altro non è che il riflesso di goffi tentativi di diventare adulto.

Cosa è successo? Come siamo arrivati a questo punto?

In tutto questo scenario, io che tra i banchi di scuola giro quasi tutta la lezione, che preferisco essere in mezzo a loro e non davanti a loro, che prediligo il mettermi in discussione, ascoltarli e ascoltarmi, mi rendo conto di quanta bellezza ci sia, anche dietro le maschere peggiori.

Ora, da insegnante, so che essere irremovibile
non significa essere duro, ma giusto.
Non è sinonimo di insensibilità, ma di cura

Così, catapultato in mezzo a quelle sparatorie quotidiane, prendo pallottole a destra e a sinistra, penso di accasciarmi, talvolta inciampo nel mio lato umano, fragile, infantile, incapace. Poi però sento le urla fermarsi, giro lo sguardo e scorgo mio padre, fermo, con quel mezzo sorriso accennato sul volto.

E torno in posizione eretta, impunto le piante dei piedi, divento irremovibile.

Nell’insegnare qual è il limite da non superare, bisogna tenere conto che non siamo davanti ad una corsa di velocità, piuttosto ad una lunga maratona con importanti salite annesse.

Nell’educare i miei studenti, mi rendo conto che la fermezza di mio padre ha lasciato in me una traccia profonda. Mi ha insegnato che la bontà non è soltanto dolcezza, non è accontentare tutti, ma piuttosto è la capacità di restare saldi, di far rispettare dei limiti. La bontà educativa si manifesta nell’insegnare che ogni azione ha delle conseguenze, che la libertà vera nasce dal rispetto delle regole.

Nei corridoi delle scuole, molti insegnanti sono tentati di essere “amici” degli studenti, di non creare conflitti o di evitare scontri. Ma è proprio da quei confronti che nascono le occasioni per insegnare davvero. Mio padre non aveva paura di dire “no”, e con il tempo ho capito che quel “no” era un atto di bontà, perché mi ha aiutato a crescere. Ora, da insegnante, so che essere irremovibile non significa essere duro, ma giusto. Non è sinonimo di insensibilità, ma di cura.

Se confronto il modo in cui siamo stati educati con quello che vedo oggi, noto una grande differenza. I ragazzi sembrano vivere senza freni, con pochi punti di riferimento. Spesso mancano loro figure adulte che sappiano trasmettere quei valori di fermezza e bontà che io ho ricevuto. La velocità con cui il mondo cambia, le tecnologie, i social media, creano una distanza tra il mondo dei giovani e quello degli adulti, rendendo più difficile la comunicazione. Ma in questa distanza c’è anche spazio per noi insegnanti, genitori, educatori, per diventare quel punto fermo che i giovani spesso cercano inconsciamente.

C’è ancora la necessità di essere guidati,
di avere modelli di bontà e fermezza
che possano offrire un senso di stabilità

Come generazione, abbiamo forse dimenticato che l’educazione è una maratona, non uno sprint. Serve pazienza, e soprattutto costanza. Gli adolescenti di oggi sono esposti a stimoli continui, la loro attenzione si sposta rapidamente, e tutto appare loro facile e immediato. Ma dietro questa facciata, c’è ancora la necessità di essere guidati, di avere modelli di bontà e fermezza che possano offrire un senso di stabilità.

E allora mi domando: come possiamo riportare quei valori nel mondo di oggi? Forse la risposta non sta in un ritorno al passato, ma in un adattamento consapevole. Dobbiamo accettare che i tempi sono cambiati, ma che i principi di rispetto e responsabilità sono immutabili. Come mio padre, dobbiamo essere irremovibili quando necessario, pronti a sorridere quando possibile, e soprattutto, disposti a restare saldi, a non cedere alla tentazione di “facilitare” troppo il percorso dei nostri figli e studenti.

La bontà non è una debolezza, ma una forza. È quella forza che mio padre mi ha trasmesso e che, ogni giorno, mi accompagna nella vita e nel lavoro. E ogni volta che sento il bisogno di cedere, di abbassare le mie aspettative, lo vedo ancora lì, fermo, con quel mezzo sorriso accennato, pronto a ricordarmi che la bontà vera è fatta di fermezza, di pazienza e di amore.

Sei ancora qui, irremovibile. Bontà.