caos

N.47 febbraio 2024

DAGLI ARCHIVI DI RIFLESSI

Quando mio padre mi chiede “chi sei?”

foto Fausto Podavini

Nella sala di accoglienza del centro di via Fabio Filzi ci sono due macchine del caffé, etichette con i nomi sopra le sedie disposte in cerchio e vivaci disegni ad acquerello alle pareti. Alberi, case, fiori… Il mobile vicino allo stereo trabocca di bambole, birilli colorati e un pallone gonfiabile con il disegno del pesciolino Nemo che vola da una parte all’altra del cerchio quando all’Alzheimer Caffè dell’associazione Aima di Cremona si gioca a pallavolo.

Annamaria prende il pallone. Ferma lo scambio di palleggi. Guarda dritta davanti a sé e indirizza il lancio verso Giovanni: «Ecco a lei». 

«Qui si impara ad essere gentili», spiega Loriana Poli, presidente dell’associazione Aima di Cremona. A volte è difficile, perché quando perdi la memoria di te stesso qualcosa si rompe. Dimentichi presto e devono ripeterti la stessa cosa. Ancora. Ancora. E perdono la pazienza, ti danno ordini, cambiano il tono. «Bisogna capire come comunicare con un malato di Alzheimer». È la ricerca continua di una strategia. E di un aiuto.

«Io con mio padre ho sbagliato tutto» ricorda Loredana, che confessa di essere diventata una volontaria dell’Aima come per vincere il senso di colpa di quegli errori. Quando papà si è ammalato non conoscevo nulla della malattia: «La cosa peggiore, all’inizio, è cercare di rimetterli “sulla retta via” – spiega – di “farli ragionare”». Così un malato di Alzheimer si confonde e si agita. «Bisogna capire che loro non possono più cambiare. Siamo noi a doverlo fare».

E quel “noi” sono i famigliari che senza preavviso, senza preparazione e troppo spesso senza aiuto, si trovano ad essere “caregiver”. Soli.

Le età della vita si confondono,
ma resta il legame,
il ricordo di una famiglia,
il luogo dove vivono gli affetti.
Le cose vere

Ma qui non si parla di malattia. Qui ci si tiene compagnia. E ci si aiuta. Come durante l’ora settimanale di ginnastica, una delle tante attività mirate proposte; sono tutti seduti in cerchio sulle sedie verdi. Stefania Bonvicini, l’istruttrice mostra gli esercizi: un braccio alto, l’altro teso davanti a voi; disegnate dei cerchi sul pavimento con il piede destro… ora con il sinistro… Anna ha qualche difficoltà nel piegare il ginocchio. Può succedere: il comando parte dal cervello ma non arriva fin laggiù. Così Annamaria, che le siede vicino, le appoggia una mano sulla gamba e la aiuta a completare l’esercizio. «A volte – spiega l’istruttrice – è sufficiente un contatto minimo, come quella mano sulla gamba, per stimolare il movimento». Che è un po’ per il corpo e un po’ per la mente: «Riattiviamo muscoli e articolazioni; aiutandoli a ricordare e ripetere le serie di movimenti, teniamo stimolata la memoria». Che poco a poco si spegne: i ricordi si fanno sfocati, si mescolano dando vita ad una realtà in cui la sequenza temporale perde ogni sua regola.

«Mi siedo, ma non mangio»: Carmela si avvicina alla presidente mentre si stanno apparecchiando i tavoli per la merenda. «Aaah – la abbraccia teneramente Loriana – la nostra Carmelita vive d’amore…». Ha una camicia sgargiante, capelli ricci ben ravvivati e due guance rosa che disegnano uno sguardo simpatico. «Ma no, quale amore! Poi mamma e papà che dicono?». La mamma (e anche il papà) in realtà è il marito che ogni giorno la accompagna e la viene a prendere. Lo chiama mamma. I suoi tre figli, invece, sono diventati i suoi fratelli: le età della vita si confondono, ma resta il legame, il ricordo di una famiglia, il luogo dove vivono gli affetti. Le cose vere.

E chissà quali ricordi di madre o di figlia si muovono silenziosi tra le mani di Pierina che, mentre tutti gli altri seguono le istruzioni di Stefania, tiene per tutto il tempo un bambolotto seduto in grembo, lo accarezza, gli sistema il ciuffo e le pieghe della tutina azzurra. In silenzio, sollevando di tanto in tanto uno sguardo lontano.

Dalla stanza a fianco, attraverso i muri tappezzati di alberi colorati ad acquerello, vibrano i bassi di una musica ritmata. Un gruppo ristretto – oggi sono i cinque – segue il corso di danza-movimento terapia con Marcella Bonelli, la psicologa specializzata in questa disciplina espressiva e psicodinamica. Ai suoi allievi non serve conoscere il termine scientifico. Seguono il tempo, cantano e ballano. Alla fine, quando la porta si apre per ritrovarsi in salone con gli altri, si stanno ancora abbracciando e stampando baci affettuosi sulle guance: «Il ritmo li aiuta a tenere attivo corpo e mente. E soprattutto… fa gruppo». E il registro espressivo della musica unita al movimento «fa uscire il loro mondo emotivo: riescono a parlare, raccontano di sé, danno sfogo alle proprie emozioni, alla rabbia come alla tenerezza».  

Gino, intanto, come al solito batte la fiacca. «Non ce la faccio più». Stefania lo rimprovera con dolcezza: «Forza, Gino, mica stiamo facendo i lavori forzati!». Franco è seduto lì a fianco e senza smettere di alzare e abbassare le spalle interviene per la prima volta da quando sono qui: «Io l’ho visto… un campo di lavori forzati». 

Quest’anno è partito un nuovo progetto realizzato con il sostegno del Club Rotary Monteverdi di Cremona e che permetterà ai parenti di assistere a questi momenti di attività. Come me, oggi, siedono su una sedia rimasta vuota nel cerchio. Si stupiscono nel vedere la propria moglie o il proprio padre giocare a pallavolo o ballare il liscio. A casa invece restano ore seduti al tavolo a fissare il vuoto. «Qui – osserva la dottoressa Bonelli – del loro parente non vedono solo i limiti, ma si accorgono di tutte le risorse che possono ancora mettere in gioco in una relazione: vedono il loro sguardo vivo, la gioia che provano al contatto con altre persone, nel sentirsi parte di un gruppo». 

Sarà come ri-conoscere qualcuno di profondamente familiare che la malattia ha trasformato improvvisamente, inesorabilmente in qualcun altro.

Qui è più facile. Non c’è il peso dei ricordi strappati. Al Caffè Alzheimer si creano nuovi legami, per tre ore si continua ad abitare il tempo – quello della malattia – con un inatteso protagonismo: per molti di loro «è il primo passo fuori da casa, dentro la vita che, invece, intorno continua a correre veloce per i mariti e le mogli, i fratelli, le sorelle e i figli. 

«Mi guardava 
e mi chiedeva “Chi sei?”
Al semaforo apriva la portiera
e scendeva dall’auto»

«Quando arriva l’Alzheimer – dice Loredana – si è tutti malati in famiglia». Lo sa Daniela, anche lei volontaria Aima: «Il rischio è quello di chiudersi in un cupo isolamento. Escludere il malato dalla vita sociale, anche un po’ per vergogna, ed escludere anche sé stessi». Per questo – ripete – bisogna parlare dell’Alzheimer e parlare di luoghi come il Caffè. La mamma di Daniela si è ammalata a 50 anni. E’ rimasta in casa per 25 accudita dal marito e da un’amica. «Non è più uscita di casa. Chiamava “mamma” mio padre… Quando è mancata, nel 2011 – racconta oggi la figlia – ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa per i malati e per le loro famiglie. È una decisione che ho rielaborato per lunghi mesi. Poi ho incontrato Aima e dopo due giorni ero qui come volontaria». 

«All’inizio pensavo che tutti i malati fossero come mia madre. Invece sono tutti diversi, unici. Perché la malattia, nel cervello di ognuno, prende strade diverse». E, mentre cancella e distrugge, crea. 

La palla con il pesciolino Nemo atterra morbida sul viso di Adele. Non l’ha vista arrivare e le mani si sono strette troppo lentamente. C’è un momento di silenzio riempito dalle carezze e dagli incoraggiamenti delle amiche. Volontarie e operatori osservano qualche passo indietro. «Non ti sei fatta male. È morbida». Adele sorride: «Mi è arrivata proprio qui in faccia». Stringe la mano a Pier. Ma la partita sta per finire.

«Musica!» annuncia la presidente. Mariarosa, resta seduta. «Ma se me lo dicono, vado anch’io», confida sottovoce. L’invito arriva e si unisce alle danze e al coro: “E qui comando io, e questa è casa mia…”.