frontiere
N.12 Giugno 2020
Un pallone per dire casa
Stefano Fogliata ha vissuto e studiato nel campo dei profughi siriani palestinesi di Beirut giocando a calcio nel campionato di chi non ha una patria ma indossa una maglia che significa comunità
«La soluzione è che te ne torni in Siria».
Un muro. Louay è rimasto bloccato dentro l’areoporto Ataturk per 24 giorni. I suoi amici nel campo profughi di Beirut lo avevano aiutato a raccogliere i soldi e ad avere i documenti. Il piano era quello di raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi per l’Europa.
La Siria non è una soluzione. Louay ha 27 anni e laggiù avrebbe tre opzioni: «O sei con i ribelli, o sei con il regime… o sei morto». Ma non vuole imbracciare le armi.
Lo scaricano alla frontiera. Lui torna a Bourj-el-Barajne, il campo dei profughi siriani-palestinesi di Beirut, in Libano. Torna a vestire la maglia numero 10 dell’Al-Aqsa, a giocare nella lega che porta in nome di Arafat e che raccolgie tutti i calciatori che non possono giocare – da regolamento – nel campionato di calcio libanese.
«Palestinese siriano vuol dire che non hai nessuna patria, non hai un paese in cui essere rimandato». La storia di Louay è la storia di decine di migliaia di giovani uomini che ogni giorno si affacciano ad un confine senza sapere da quale parte stare. La racconta Footbalization, un interessante docufilm di Francesco Furiassi e Francesco Agostini (Mescalito Film) che porta sullo schermo la ricerca di un giovane antropologo bresciano, Stefano Fogliata, che nel campo ha vissuto, studiato e giocato a calcio per quattro anni.
A maggio Stefano è stato ospite di un incontro digitale con i dirigenti e gli allenatori del Csi di Cremona, in cui ha descritto non la società nel campo profughi attraverso in calcio, ma «la società del calcio» all’interno del campo.
Il campo da calcio è un angolo d’aria tra i vicoli attorcigliati. In un chilometro quadrato vivono 45mila persone: non ci sono tende come nei campi profughi dei telegiornali, ma appartamenti stretti e senza comfort, muri scrostati e cavi elettrici annodati senza ordine a quelli della rete internet. I siriani palestinesi a Beirut non hanno cittadinanza, ma hanno una maglia.
«Il calcio, lo sport in generale, non è la panacea di ogni male. Può essere uno strumento di pace, ma sappiamo che nella storia è stato anche mezzo di divisione e propaganda». Partito come cooperante per un progetto della Caritas libanese, Stefano della sua vita in Libano ha fatto una ricerca per il dottorato in antropologia. Ricerca sul campo, nel senso più letterale: «Ho impiegato anni a conquistare la fiducia delle persone. Alla fine l’ho conquistata giocando a calcio».
Terra e sudore, le trasferte, la paura di essere fermati al check point, la nostalgia di una patria. Il calcio non è una metafora della vita. E nemmeno il lusso di un hobby come qualcuno vorrebbe far credere.
Quante volte Louay ha detto che probabilmente la prossima domenica non sarebbe partito con la squadra. Sempre per via dei documenti. Poi il numero dieci, con i compagni siriani, palestinesi, libanesi e l’italiano, si presentava al pullman. «La domenica… si gioca a pallone», racconta Stefano nel documentario. Anche se il campionato ufficiale ammette solo un palestinese per ogni squadra, mentre i brasiliani invece sono accolti (e pagati) come stelle. Anche se non sono Pelé, che nel 1974 era arrivato a Beirut per far contento uno sponsor. «Tutto il Libano era fermo per l’evento, lo stadio esplodeva. La città aveva chiuso». Per una partita di pallone. Poche settimane dopo il Paese si sarebbe fermato per la guerra. «Perché lo sport – riflette lo studioso bresciano – non racconta la storia, ma spesso la anticipa».
Ora Beirut è ripartita. I bambini sono tornati a sognare di diventare come Pelé o come Messi. Anche a Bourj-el-Barajne, dove però anche questo sogno rischia di fermarsi al primo check point. O di perdersi tra le pieghe di un regolamento che non offre a tutti la stessa occasione.
Sul campetto i piccoli calciatori senza patria siedono in cerchio. «Chi non sa come tornare a casa?»: l’allenatore pone la domanda, come ogni volta, con il solito tono senza pathos. È la domanda che nasconde il significato di una vita in cerca del lato giusto del confine. Oppure no: è la vita quotidiana di chi vive nel campo profughi.
Le mani che si alzano sono quelle dei bambini che non sono nati profughi. Arrivano da Yarmouk, Damasco, Aleppo… «Dopo tre o quattro anni non sanno ancora come tornare dal campetto dell’allenamento fino a casa», spiega Stefano. I bimbi che, invece, sotto i cavi aggrovigliati a 8 chilometri dal centro di Beirut ci sono nati, li accompagnano nel dedalo dei vicoli tutti uguali.
«Al di là delle cause nazionali – osserva il giovane ricercatore – in fondo si tratta di tornare dove vive la tua famiglia». Di trovare la strada di casa, senza perdersi, e domani tornare al campo, quello di pallone.