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N.36 Dicembre 2022

RUBRICA

La storia delle canzoni… invecchia con noi

Dalla Nilla Pizzi del primo Sanremo (1951) alla trap: perché le canzoni, tra impegno e leggerezza, raccontano società e cultura e attraversano con noi le età della vita

La musica invecchia? Certamente. Non solo avviene dal punto di vista puramente tecnico e sonoro, ma anche secondo un’ottica di aggiornamento incessante di contenuti; e allora dove starebbe l’universalità della musica? Come farebbe il genere umano a cogliere il medesimo messaggio a latitudini lontane fra loro, a distanza di tempo o frugando fra i reperti storici? Forse una risposta c’è se proviamo a tracciare per esempio quello che una vita ha vissuto in musica, non prendendo in esame un periodo storico lontano nel tempo, ma guardando all’epoca “presente e viva e al suon di lei”.
Chi oggi non è passato in mezzo al genere della canzone? Genere popolare per eccellenza, è stata l’ossatura della fruizione musicale delle ultime generazioni. Scorriamola, allora questa storia nostra, partendo dagli anni Cinquanta.
I giovani del secondo dopoguerra si formavano ancora all’interno di una famiglia connotata da un forte legame con le tradizioni, ascoltavano le stesse musiche dei padri o delle madri, andavano a ballare negli stessi luoghi, leggevano gli stessi giornali, vedevano gli stessi film; erano immersi in una cultura di massa che in ambito musicale era rappresentata dal festival di Sanremo, inaugurato nel 1951: cantanti come Nilla Pizzi proponevano melodie rassicuranti, rappresentative di un’Italia arcaica e rurale, in perfetta continuità con la canzone di evasione precedente la guerra.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta la società italiana è investita da profondi cambiamenti: prendono avvio i processi di trasformazione economica che caratterizzano il Miracolo economico, l’urbanizzazione e l’emigrazione interna, con la conseguente nascita della società dei consumi e relativa diffusione a tutti i livelli di musica nostra e di provenienza straniera (Rock&roll, Blues). È quando si acutizzano i problemi sociali all’inizio degli anni 60 che la forma della canzone diventa contenitore di impegno sociale ed è con la scolarizzazione di massa che si definisce una condizione giovanile che comincia a staccarsi dalla famiglia; nella musica avviene una autorappresentazione dei giovani sia in senso edonista che impegnato. Molte canzoni possono apparire banali, altre serie, ma tutte riescono ad esprimere un certo grado di coscienza sociale, necessario per interpretare il conflitto e l’antagonismo generazionale.

Con la fiammata del ‘68 i canzonieri politici alimentano la rilettura del folk in chiave ribelle e contribuiscono ad ampliare quella fascia di pubblico giovanile sempre più attratto dalle musiche alternative al genere sanremese davanti ai nuovi esempi musicali che arrivano da oltre oceano e dalla Gran Bretagna (Beat, Folk, Jazz): il nuovo non soppianta il vecchio, gli si muove accanto, ma le età divergono e inevitabilmente le differenze si fanno sentire. Chi, in questo frangente, non avrebbe sentite vecchie queste parole del decennio prima…:


“non cerco nulla e non m’importa nulla,
sorrido al mondo e il cuore mio stornella,
la vita è triste eppure è tanto bella”.
(Claudio Villa, Gira la vita 1952)


Accanto al filone “politico” della canzone (Guccini, De André), inizia anche una vena che privilegia le canzoni d’amore disimpegnate, in una sorta di schizofrenia tra le musiche scelte come colonna sonora della militanza politica e quelle amate nel privato e nel quotidiano (Battisti, Baglioni).

È la volta dei cantautori, capaci di riflettere la realtà tra poesia e denuncia, sentimento ed evasione, intimismo e istanze collettive, offrendo immedesimazione e riconoscimento. Una cosa in comune fra tante tendenze però si trova: è l’aver scritto spesso testi che sono autentica poesia, probabilmente più autentica di tanta produzione ermetica colta coeva di nessuna rilevanza comunicativa e di tanto inutile autoreferenzialità.


Guarda come dondolo,
guarda come dondolo con il twist,
con le gambe ad angolo
con le gambe ad angolo ballo il twist.

(Guarda come dondolo, Edoardo Vianello 1962)

Ecco un testo diventato vecchio abbastanza presto…

Come una piccola onda in un lago si diffonde poco a poco a tutta la superficie, così il celebre film La febbre del sabato sera cominciò a far circolare nel nostro mondo musicale l’idea del divertimento fine a se stesso: ed ecco arrivare la Disco-music, il Punk, la musica priva di impegno sociale, puro movimento e agitazione.


Noi siamo figli delle stelle
Figli della notte che ci gira intorno
Noi siamo figli delle stelle
Non ci fermeremo mai per niente al mondo
Noi siamo figli delle stelle
Senza storia senza età (Alan Sorrenti, Figli delle stelle, 1977)


Tanto basterebbe a far sentire vecchia, in quel momento, “Auschwitz” di Guccini di 13 anni prima…
Gli anni Ottanta sono gli anni dell’affermazione di una cultura narcisistica orientata alla soddisfazione dei propri bisogni individuali e privati, con la comparsa dei videoclip la musica si vede e si ascolta, e questo favorisce la spettacolarizzazione della musica e la creazione di star planetarie, come Michael Jackson e Madonna.

Oh the night is my world – Oh la notte è il mio mondo
City life painted girls – La vita della città, ragazze dipinte
In a day nothing matters – Di giorno niente ha importanza
It’s the night time that flatters – È la notte che lusinga
Oh the night no control – Di notte non c’è nessun controllo

(Self control, Raf 1987)

Tempi che cambiano, filosofie della musica che invecchiano…
E saltiamo agli anni 2000: anni dalle influenze sempre più globali, ricco e inafferrabile perché l’estremo individualismo occidentale dà la possibilità a ciascuno di costruirsi la propria colonna sonora, e tutto convive con tutto, dal pop al trap, dal rock nuovo a quello nostalgico, all’hip hop, urban, dubstep, afrobeat…un flusso di parole e concetti che dice tutta la rapidità del vivere di oggi insieme alla mancanza di punti fermi e riferimenti per le ultime generazioni: si ascolti un rapper qualsiasi con la sua prosa caotica e disordinata e si provi a immaginare come lui possa sentire sorpassate queste parole…:


Si parlava in tutta onestà di individui e solidarietà
Tra un bicchier di vino ed un caffè
Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi però

(Quattro amici al bar, Gino Paoli 1991)


Semplificando molto, si è visto che la musica cambia e crea il senso del sor/passato: anche dal punto di vista del suono avviene la stessa cosa: chi è che non si accorge di quanto sia rudimentale e quindi ammuffito il suono sotto ai testi dei Beatles; e chi non è affascinato dai suoni nuovi delle musiche da film, per esempio, di fronte ai quali un’orchestra tradizionale impallidisce impotente.
Le canzoni, anche quelle apparentemente banali, possono dire molto sui processi di cambiamento dei costumi e della mentalità collettiva di una società; che siano d’amore o di vita quotidiana o altro, esse producono processi di rispecchiamento o di identificazione, fissandosi con forza nel vissuto delle persone, registrandone la storia con le sue evoluzioni e i suoi vuoti a perdere messi da parte senza problemi.
Certo non è storia tutto il filone della musica classica/colta eseguita in quei strani riti ingessati dei concerti, che non fa altro che ripetere fissamente un mondo dorato di bellezze che parlano solo del “loro” tempo, non del nostro; che sia musica non “accordata” con noi è evidente, ha strumenti e modi di dire/cantare che ben pochi intendono più.
Resta musica universale? Sicuramente, come tutta la musica del nostro tempo citata sopra: perché mano a mano che si ascolta ripetutamente una musica che ci attrae per qualche motivo, ci si pone sulla sua lunghezza d’onda, e la percezione del bello, che non è propriamente razionalità, arriva subito se si è immersi in quel genere dalla giovinezza; oppure dopo chissà quanto se lo stile del brano è lontano dal vissuto e ha bisogno – ahimè – di spiegazioni.