giochi
N.30 Aprile 2022
Fare cinema per gioco, tra “scherzi” ottici e mind game film
Dalle origini della tecnica cinematografica alla visione postmoderna in cui lo spettatore è coinvolto in un impianto narrativo che si diverte a sovvertire, sottintendere, implicare...
Che ci fosse una somiglianza tra il cinema e il gioco lo avevano scoperto i primi sperimentatori (e osservatori) della nuova invenzione fin dalla sua nascita. A giocare era lo spettatore, il quale doveva attribuire una coerenza logica a immagini singole (i fotogrammi) che scorrevano in rapida successione attraverso il proiettore cinematografico. Ciò accadeva naturalmente grazie al fenomeno della cosiddetta “persistenza retinica”, per cui le immagini si stabilizzano sulla retina per qualche frazione di secondo dopo la loro scomparsa (oggi la teoria della Gestalt parla di fenomeno “phi” e di un corto circuito tra diverse aree cerebrali che presiedono alla proiezione delle immagini).
Un secondo ordine di giochi, mutuato questa volta non dall’ottica ma dal teatro, riguardava la recitazione degli interpreti che tendeva ad essere realistica per suscitare un effetto di credenza sugli spettatori. Addirittura, il cinema classico era arrivato a sopprimere la cosiddetta “quarta parete” (ossia lo spazio che – a teatro – guarda dal palcoscenico verso il pubblico) per non lasciare alcun dubbio sulla verosimiglianza del gioco attoriale.
Ma, oltre a questi aspetti per così dire costitutivi del cinema, è in tempi più recenti che la dimensione ludica della settima arte si è palesata in pieno, dopo l’avvento della società postmoderna, ben descritta da Fredric Jameson e François Lyotard, che ha modificato non solo le forme e i contenuti delle opere d’arte, ma anche il rapporto che il pubblico intrattiene con esse.
Vedere un film, guardare un quadro, leggere un romanzo oggi sono attività finalizzate non tanto a ottenere un accrescimento culturale, ma a un piacere istantaneo che è dato dal gusto di riconoscere una citazione, di condividere con l’autore un testo pregresso, di apprezzare un certo impiego dello stile. Con il rischio che deriva da tutte le generalizzazioni, si può dire che lo spettatore – sospesa quella granitica credenza nel messaggio autoriale, che era appannaggio della modernità – viene ora chiamato a interagire con il creatore in modo complice, attraverso strizzate d’occhio volte a stabilire una relazione all’insegna del divertissement. Il sovvertimento della linearità narrativa (come in Pulp Fiction di Tarantino, 1994), la spettacolarizzazione della violenza, il piacere di rifare o rievocare un cinema che non c’è più (The Artist, 2011, di Hazanavicius; oppure tutto il cinema di Woody Allen) sono solo alcuni degli aspetti più evidenti del cinema contemporaneo che, per attirare sempre la nostra attenzione, fa leva sulla sorpresa, sulla variazione. La scelta di inquadrature dall’alto, di valore spettacolare ma prive di una vera e propria motivazione drammaturgica, ad esempio realizzate con i droni, esemplifica questa ossessione del “gioco per il gioco” che traduce in chiave contemporanea i precetti dell’homo ludens di Huizinga.
Anche la stretta correlazione tra film e videogiochi – nei quali gli utenti sono invitati a ripercorrere le vicende dei personaggi, o a elaborare strategie alternative – non fa che rafforzare questa tendenza alla “gamificazione”. Ne è un celebre (e programmatico) esempio Bandersnatch, un film interattivo realizzato nel 2018 da David Slade per Netflix, su sceneggiatura di Charlie Brooker, nel quale lo spettatore si trova davanti a numerose scelte che orientano il suo percorso di visione. Il film racconta la storia di un giovane programmatore che, negli anni Ottanta, cerca di realizzare un videogioco, ma che insieme rivive, con l’aiuto di una psicoterapeuta, episodi drammatici legati alla sua infanzia.
Un’ulteriore e complessa evoluzione del gioco al cinema è rappresentata dai cosiddetti mind game film, ossia pellicole – sempre più diffuse nel cinema contemporaneo – che richiedono allo spettatore un’integrazione attiva rispetto agli indizi distribuiti non sempre in maniera chiara lungo il testo. A questo filone di film Thomas Elsaesser, di recente scomparso, ha dedicato dei contributi illuminanti (raccolti nel volume postumo Thomas Elsasser, The Mind-Game Film: Distributed Agency, Time Travel, and Productive Pathology, Routledge, 2021).
I mind game film presentano un orizzonte narrativo elaborato, un enigma che riguarda il rapporto tra realtà e immaginazione. Possono esserne coinvolti tanto i personaggi quanto lo spettatore, ma ciò che avviene è la perdita di un narratore onnisciente, capace di dare ordine al racconto, per una maggiore focalizzazione sui personaggi e sulla mancanza di orizzonti di riferimento certi. I generi cinematografici di questi film sono diversi, ma in comune essi presentano protagonisti che si trovano in condizioni estreme, o patologiche, nelle quali non è facile separare ciò che è reale da ciò che è fittizio o appartiene a mondi o realtà parallele.
Film come The Truman Show (di Peter Weir, 1998) – che racconta di un personaggio divenuto ignaro protagonista di un reality nel quale è intrappolato, con richiami a Philip Dick e alla serie Ai confini della realtà), o come Mulholland Drive (di David Lynch, 2001), che appare come un gioco di scatole cinesi (come nella celeberrima sequenza presso il Club Silencio, dove il rapporto tra realtà e rappresentazione viene continuamente esibito, attraverso performance che sembrano live ma sono preregistrate, mentre il presentatore afferma che tutto è illusione), sfidano lo spettatore a tentare di sciogliere un rompicapo senza una soluzione, lasciandolo in una situazione di dubbio e di sospensione.
Dunque, nei mind game film non si gioca più per vincere, per chiarire un dubbio, o ancora per complicità con l’autore dei film.
Lo spettatore gioca perché non può far altro, ponendosi continuamente domande, disponibile a cambiare strada quando l’interpretazione appare errata, e con il dubbio di non poter mai chiudere l’indagine. Si tratta di giochi che, in definitiva, si rivolgono a uno spettatore maturo, e lo allenano a esercitare un’attività interpretativa e critica nei confronti dei film.
Chissà che questa abitudine critica e riflessiva non si possa esportare dai mind game film anche nella realtà della vita.